Grazie a Fulvia Bandoli per aver sollevato nel suo articolo E se parlassero solo gli uomini? un problema di grande rilevanza. Considerando alcune riflessioni e conclusioni personali cui sono giunta da tempo – formulate, verbalmente e per iscritto, in diverse occasioni pubbliche e private – in merito agli interrogativi sollevati da Bandoli, tengo a dire, innanzi tutto, che le riflessioni dell’autrice rappresentano per me un felice incontro di pensiero – al femminile – appartenente a donne che, pur geograficamente distanti e diversamente occupate in vari contesti, sono giunte, per vie autonome, a individuare con chiarezza il nucleo fondamentale di un problema dalla cui comprensione e soluzione potrebbero derivare, per il movimento femminile e femminista, delle precise indicazioni di pensiero, politico e strategico, sulla direzione da prendere -nelle teoria e nella pratica- in un immediato futuro.

Tengo a dire, ancora, che il riscontro di una certa affinità di pensiero con l’autrice, va ad aggiungersi, positivamente, a un’esperienza in corso che, iniziata attraverso uno scambio di comunicazioni scritte e pubblicate dalla redazione de Il Paese delle donne, ha poi portato alla conoscenza, in carne e ossa, fra scriventi, a vantaggio di iniziative importanti sul tema della violenza che stanno prendendo corpo nella città di Padova.

Si chiede, a ragione, F[ulvia Bandoli->http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=10284], se il fatto che i parlamentari uomini tacciano e siano sempre e soltanto le donne a prendere la parola nelle discussioni sulle mozioni presentate alla Camera per prevenire la violenza di genere, non fornisca ai primi un potente alibi per sottrarsi – con la strategia del silenzio-assenso, aggiungo io – a una assunzione diretta di responsabilità etica, personale e politica in materia.

La posizione e l’atteggiamento assunti dai maschi parlamentari, sono, come d’altronde sottolineato, davvero paradossali e tuttavia aspettarsi qualcosa di diverso sarebbe ingenuo.
_ E non già perché “In Parlamento siede una fauna di bacchettoni, di sepolcri imbiancati che parlano di moralità e poi hanno due o più famiglie, amanti a iosa e così via“ – come suggerisce troppo frettolosamente Antonio nel suo commento all’articolo – ma per una ragione molto più seria e profonda che non esita a riconoscere in questo silenzio il marchio di una malcelata e inconfessata complicità.

Detto chiaro come meglio non si potrebbe, è preclaro che alla stragrandissima maggioranza dei maschi – parlamentari e non – della violenza messa in atto dagli uomini contro le donne non importa un bel nulla.
_ A dimostrarlo, senz’ombra di dubbio e senza pericolo di smentita, sono il {{totale e sistematico assenteismo maschile dai luoghi in cui di violenza contro le donne si dibatte}} e l’azione strapotente di una forza centrifuga che dal centro del tema in questione, strappa e trascina gli uomini a parlar d’altro a gingillarsi fra le amenità del nulla, anche quando capita – raramente – che siano presenti, per errore o sventura, in questi luoghi di confronto da loro aborriti.

Direi, in modo ancora più preclaro, che la {{sistematica messa in atto di questa strategia di fuga}} – assurda e, sotto un profilo logico, apparentemente incomprensibile – non va imputata a pura e semplice indifferenza, ma all’orrore di un desiderio e di un godimento inammissibili, inconfessati e inconfessabili che trova nell’identificazione con la Hybris del violentatore – capace di osare quel non osabile che ogni maschio vorrebbe osare – la possibilità di immaginare e di “sognare”, lui stesso, ciò che nella realtà di fatto si impedisce.

Ma come si può ancora ragionevolmente pensare, di fronte a una misoginia maschile conclamata che impregna, inquina e attraversa ad ogni livello le pieghe di una società e di una cultura costruite da uomini a loro esclusivo vantaggio, che gli ideatori di questo sistema possano davvero – non dico indignarsi – ma anche solo scomporsi, dinanzi a degli atti che loro stessi, in modi magari meno truculenti, mettono ogni giorno in atto nell’intimità delle loro case?

Che cosa vogliamo aspettarci? Crediamo forse ai miracoli? Non sarebbe più ragionevole, più realistico, {{prendere atto del fatto che il rapporto dell’uomo con la donna è segnato da un odio irriducibile e partire da qui}}?

Ebbene, ci si creda o no ai miracoli, bisogna aver chiaro, almeno, che non c’è la minima speranza per le donne di uscire, una buona volta, dall’asservimento al modello di funzionamento di una logica maschia – in cui molte di noi sono, malgrado tutto, ancora inconsapevolmente impigliate – se manca, da parte loro, quell’Atto etico politico rivoluzionario che appartiene alla soggettività femminile e che, come mostra l’articolo di Fulvia Pandolfi, brilla, per assenza, in Parlamento come altrove, non senza gli effetti depressivi e d’impotenza che per le donne ne derivano.
_ La sostanza del senso e della direzione di questo Atto, viene colta da Fulvia Bandoli quando scrive:

{Come è possibile non capire che sarebbe simbolicamente e culturalmente assai rivoluzionario sentire un dibattito sulla violenza sessuale nel quale per la prima volta fossero gli uomini a dire le cifre delle violenze, a dire quante volte accadono tra le mura domestiche, a tentare di trovare le parole per spiegare perché mai un sesso (il loro, quello maschile) continua a violentarne un altro (quello femminile)?}

Da tempo, e in ogni occasione, non ho fatto a mia volta che ribadire, con parole diverse, lo stesso concetto che colgo l’occasione per riformulare: solo {{quando gli uomini, da soli e per una loro autonoma iniziativa}}, saranno in grado di prendere una posizione simbolica chiara, solo quando avranno il coraggio di scendere pubblicamente in piazza a manifestare contro la violenza alle donne, sarà possibile intravedere un segno di mutamento reale ed epocale della rete socio simbolica in cui siamo invischiati.

E’ questo il Gesto etico politico rivoluzionario dello “sparasi addosso” di cui ci parla Slavoj Zizek. Che significa, semplificando, chiudere, finire, tagliare, con qualcosa la cui marcescenza, fa continuamente da ostacolo all’affermazione di un pensiero diverso su cui fondare, diversamente, la relazione fra i sessi e il futuro del genere umano.
_ Ne siamo ancora lontane.

Che c’è di meglio, una volta colonizzato il Parlamento, che guardare dall’osservatorio di una sovranità in sfacelo lo spettacolo consueto offerto da donne che si battono per la Vita e la tutela dei diritti più elementari sanciti da una Costituzione vilipesa e denegata, nei fatti, da coloro che sono chiamati a farla rispettare?

Tirarsi fuori, posizionarsi in una sorta di “trascendenza”, facendo in modo che il discorso delle donne contro la violenza rimbalzi su se stesso, si schianti, si polverizzi: ecco un modo, in Parlamento e altrove, con cui si tenta, senza successo e con gravissime conseguenze anche per il genere maschio – che di queste conseguenze non vede la portata – di scrollarsi di dosso la responsabilità storica di un Crimine che pesa sulla coscienza maschile come un macigno. E la schiaccia.

Per questo gli uomini non parlano della violenza sulle donne, per questo non ne possono parlare e non tollerano che se ne parli.
_ Per questo sono loro, le donne, a parlarne.

Ma perché non tacciono, si chiede Fulvia Bandoli, perché tolgono agli uomini le castagne dal fuoco invece che costringerli a esporsi, in prima persona?
Sono queste, sostanzialmente, le domande che emergono dall’articolo e alle quali, occorre rispondere.

Capire perché le donne continuino su questa strada, facilitando ai maschi quella via di fuga a loro così congeniale invece che inchiodarli alle loro responsabilità – che se non sono personali sono di certo storiche, etiche e politiche – è essenziale e urgente.
_ Un concretissimo esempio dell’automatismo maschile a ricercare questa via di fuga, ci viene offerto proprio dal commento, scontato, di Antonio all’articolo di Fulvia Bandoli.
_ Il quale – bontà sua – fornendoci un esempio clamoroso del modo di funzionamento del pensiero maschile incapace di smentirsi, che fa?
_ Convoca da subito l’universale in cui tutto s’annega e si con-fonde:

Cara Fulvia, poni un problema antico quanto il mondo ovvero la sessualità. E’ giusto che a parlarne siano anche gli uomini, non solo loro.

Fedele alla logica dicotomica e alla reductio ad unum, scinde, separa, divide, oppone e sconnette – due elementi che nel pensiero dell’autrice appaiono chiaramente inscindibili e connessi: la sessualità maschile e la violenza che, una volta differita dall’uomo in carne e ossa, viene “girata” e demandata alle aule dei Tribunali:

Se poi si tratta di episodi di violenza allora a parlarne dovrebbero essere le aule dei tribunali…

Infine, libero dall’ingombro della violenza messa al sicuro nelle aule di giustizia, conclude l’operazione limitando il problema, in modo riduttivo, alla sfera, decisamente più soft, del sessuale:

Limitandoci a parlare della sessualità, bisogna fare una disamina…..

Insomma, parliamo di sesso, facciamo le disanime…. ma ciò che importa è che di violenza non si parli. Non c’è in tutto questo qualcosa di tremendamente sospetto?

E, dulcis in fundo, il commentatore avverte l’esigenza di virare dall’universale all’individuale, alla sua fedeltà monogamica in 40 anni di matrimonio… Forse che qualcuno lo ha chiamato personalmente in causa a giustificare una Colpa mai commessa che nessuno avrebbe mai lontanamente pensato di attribuirgli…?

Che dire?
_Che dire, se non ri-dire, ancora,, che questa fuga dell’uomo, questa sua incapacità di confrontarsi sulla violenza di genere, ha radici in un Crimine di cui rifiuta la responsabilità storica?
_ Fare in modo che questa assunzione di responsabilità ci sia, è questo il compito delle donne di vecchia e nuova generazione.