Se non fossimo abituati a macinare notizie, dati, numeri, sensazioni e sentimenti in un unico calderone che perde, di passaggio in passaggio, di lettura in lettura, di voce in voce, il proprio significato, meriterebbe molta più attenzione di quella che ha suscitato la notizia, pubblicata qualche giorno fa da Repubblica, secondo la quale, in base ad uno studio dell’istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa, il 6% degli studenti italiani usa psicofarmaci senza prescrizione medica.
Di essi, 80mila circa sarebbero consumatori abituali. È {{un dato allarmante ed estremamente drammatico}}, che ci butta in faccia una realtà della quale intuitivamente tutti eravamo più o meno consapevoli: il dilagare di una fragilità in cerca di risposte facili ed immediate.

{{La fragilità inizia nella famiglia}}: è lì che i ragazzi prevalentemente si approvvigionerebbero, ricorrendo a condotte che vedono concretizzate dai genitori ed entrando spesso a contatto con una visione della medicalizzazione del disagio quantomeno superficiale e fuorviante. La fragilità è poi incentivata, esasperata, dall’uso incauto della rete, che ne consente l’acquisto.

La pratica sarebbe abituale, quotidiana, con scambi a scuola, {{una maggiore frequenza tra le ragazze,}} una predilezione particolare per i tranquillanti. L’iniziazione avverrebbe intorno ai 15 anni, propiziata anche dalla facilità del reperimento e dalla relativa ma significativa diffusione del rituale. D’altra parte, qualche giorno prima della pubblicazione dei dati, il Dipartimento di Salute Pubblica dell’Università di Torino aveva rivelato come l’ansia da interrogazione o da compito in classe evidenziasse tra gli studenti piemontesi la propensione all’uso di psicofarmaci.

La fragilità viene probabilmente incrementata poi da {{una ritrosia da parte della scuola }} a porsi di fronte al cambiamento antropologico del profilo medio dello studente. Esiste forse un motivo se le generazioni dimostrano una capacità sempre più inadeguata di reagire alla fatica che un apprendimento significativo comporta, a fronte di una richiesta da parte della scuola sempre meno esigente e intransigente. Forse sarebbe il caso di investire – senza giudicare, senza stigmatizzare, senza etichettare – in maniera più intensiva sulla relazione e sulla cura.

La fragilità trova poi la sua più grande alleata nell’idea che la fragilità stessa sia un disvalore e non un indicatore di sensibilità e sofferenza, a cui occorrerebbe semmai fornire delle risposte complesse. Perché {{la fragilità non deve diventare un alibi,}} ma non è un disvalore. Non è un incidente, da sanare con mezzi che stanno fuori di noi; attraverso interventi esterni, cui si affida – per superficialità, per fretta, per ignavia, per incapacità, per debolezza – la soluzione di problemi che sono dentro al ragazzo e che l’ambiente in cui vive non lo aiuta ad affrontare.

Questi dati esortano famiglia, scuola, società alla riflessione. E tutti noi a ricordare, come scrive {{François Dubet}}, che, qualsiasi siano le cause di questo enorme disagio, «a scuola non entrano studenti, ma giovani».