L’autrice è Ordinaria di Storia del Pensiero politico e questione femminile, Università di Cassino e del Lazio Meridionale.

Negli anni ’60 –’70, una rivoluzione culturale femminista mise al centro le soggettività femminili non più ricomprese in una, seppuredemocratica, social history.

Il nemico intellettuale da sconfiggere era una storia politica narrata quasi esclusivamente al maschile e soprattutto narrante avvenimenti, epifenomeni, presentati come cause.

La storia politica aveva al centro l’evento, la congiuntura politica e militare, le grandi figure; era sostanziata da tutto ciò cui le donne non sembravano avere contribuito neanche un po’, né con le idee, né con le azioni, né con una cultura, per secoli, prevalentemente orale. La sua presenza era testimoniata in modo affiancato e silente, ricondotta a un quotidiano monotono, il contrario dell’avvenimento.

La storia da sconfiggere era quella costruita solo ed esclusivamente da autori responsabili di una grande opera storica ma, come scrisse Lucien Febvre, il personaggio storico doveva rispondere all’esigenza elementare dell’esemplificazione e della comoda mnemotecnica. Nessun essere umano, comunque, poteva essere considerato una potenza autonoma, una specie di creazione originale e spontanea. La società era per l’uomo una necessità, una realtà organica, e ogni azione per quanto individuale aveva bisogno della collaborazione attiva delle masse e dell’ambiente.

Attraverso il rifiuto dell’evenemenziale e la sottolineatura del rapporto individuo-società-masse (come scrivevo, già nel volume collettaneo Storia delle donne una scienza possibile (1981) parlammo, implicitamente, di un recupero storiografico della presenza femminile chein precedenza, nella migliore delle ipotesi, era anche linguisticamente sottointesa. La terminologia usata poteva abbracciare un plurale ma escludendo l’una dall’indagine storica.

Erano anni di costruzione di un linguaggio specificatamente femminile, non sessista come negli studi di Alma Sabatini, e di emersione di personagge perché alle sante, alle regine e alle consorti illustri apprese sui banchi di scuola – secondo la logica giustificativa delle donne d’eccezione – si accompagnassero altre portatrici di idee e di azioni e si elaborassero spunti collettivi di storia di genere vera e propria.

L’onda lunga della rivoluzione culturale femminista si riflesse nelle mie scelte universitarie.

Alla mia prima laurea in Filosofia (1978) con tesi in Storia contemporanea sul fascismo e le organizzazioni cattoliche, mi scattò nella mente un disagio simile a quello delle prime femministe nelle contestazioni studentesche: la stanchezza di obbedire e applaudire i leaders del movimento studentesco; non ritrovarsi nelle infinite pagine di ciò che veniva brillantemente ripetuto agli esami.

Con la seconda laurea, in Lettere (1980), in Storia dell’età dell’illuminismo, la tesi su La condizione femminile nel XVII e XVIII secolo divenne il mio primo libro, co-autrice Susanna Bucci(1985). Intanto, la voglia culturale e personale di ricostruire il senso di sé nella storia s’era accresciuto e il mio secondo libro fu Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo, co-autrice Beatrice Pisa (1985).

Assieme ai tentativi di essere riconosciuta a livello accademico, sperimentai una sorta di doppia militanza; con Beatrice Pisa ci ritrovavamo nel palazzo occupato di Governo Vecchio, sede storica del femminismo romano, per seguire i primi seminari di storia delle donne tenuti da Annarita Buttafuoco.

I riferimenti alle maestre, in questi studi, erano pochissimi; lo trovai in Ginevra Conti Odorisio cui, non  a caso, collaborai a organizzare il convegno Gli studi sulle donne nelle Università: ricerca e trasformazione del sapere (1986), diventato un terzo libro nel 1988.

I contatti presi con le altre Università italiane rappresentarono l’anticamera di una banca dati su questi filoni di ricerca che si concretizzò, un paio d’anni dopo, con un censimento sugli studi di genere nei paesi della Ceee con la cosiddetta Banca Dati Grace nel quadro del programma d’azione della Comunità Europea per le Pari Opportunità nell’istruzione, negli anni Settanta.

L’Italia, nell’ottobre del 1993, affidò l’aggiornamento della Banca Dati Grace al Centro Interuniversitario per gli studi sulle donne nella storia e nella società (Cisdoss), di cui sonoco-fondatrice, nato grazie a una Convenzione fraUniversità di Cassino e del LazioMeridionale con La Sapienza (Roma); Il Centroformulò un progetto di istuzionalizzazione di discipline di genere (1990).

Dopo aver effettuato un primo censimento (1989), il Cisdoss puntò a un aggiornamento definitivo (1993), inviando oltre 400 questionaria Rettori e Presidi di Facoltà e a Studiose, in collaborazione con la Luiss cheaveval’unico corso specifico di Storia della questione femminile (a. a. 1986-87).

Meno della metà dei questionari fu compilata.

Il Cisdoss ribadiva che continuare a ignorare l’esistenza di questi nuovi settori di ricerca significava aumentare la distanza fra l’Università e le culture emergenti della società; arenderla un luogo di trasmissione di nozioni obsolete invece  del fulcro istituzionale della trasmissione di nuovi saperi.

La richiesta di inserire, nelle Facoltà di Lettere, la Storia dell’istruzione femminile e la Storia dell’associazionismo femminile, fu respinta dal Consiglio Universitario Nazionale (CUN, Prot. 583 del 5 aprile 1989).

Il nulla seguì alPiano Nazionale triennale (1993-1995), elaborato dal Comitato Nazionale per le Pari Opportunità del Ministero della Pubblica Istruzione per introdurre le P. O. nel sistema scolastico e avviare l’aggiornamento dei/delle Docenti.

Alcune Università ebbero Cattedre di Storia delle donne; in altre, rientrò nell’insegnamento di Pensiero politico e questione femminile come all’Università di Cassino e del LazioMeridionale, di cui sono titolare da molti anni.

Sotto l’ombrello della Storia Contemporanea s’attivarono contratti, affidamenti, libere docenze inerenti le discipline di genere… ma da qui ad accettarne l’istituzionalizzazione come presa in carico da parte delle istituzioni di un ammodernamento dei saperi, ce ne corre. Il misto di misoginia e spartizione delle risorse, unito alla conflittualità delle stesse studiose ha fatto il resto.

Questo non vale naturalmente solo per i cosiddetti studi di generema per vari filoni di studi più recenti, come quellisulla nascita della Comunità Europea.

Nei libri di testo delle scuole superiori e in molti curricula universitari, al di là di quelli giuridici, una disciplina organica e trasversale manca e così la riflessione sulla scarsa o assente preparazione su questi temi sulla quale si era già alzata la nostra attenzione e la sottolineatura che concorresse ad alimentare un pericoloso antieuropeismo.

Il Protocollo d’intesa siglato fra la Ministra per le Pari Opportunità e la Ministra Maria Stella Gelmini sulle politiche di pari opportunità, nel pieno accoglimento del principio di mainstreaming (2010), tenne conto sia della Dichiarazione di Pechino (1995) che della Conferenza di Praga (2009), organizzata dalla presidenza ceca alla conclusione dei primi dieci anni di politiche europee sul genere nella scienza; delle Raccomandazionidella UE sulla necessità di sostenere un cambiamento strutturale delle organizzazioni scientifiche dell’equilibrio fra lavoro e vita privata per uomini e donne; dell’importanza dell’educazione e dell’istruzione, dalla più tenera età, per rimuovere gli stereotipi di genere; della Strategia di Lisbona (post-2010), sul tema delle donne nella ricerca e nella scienza. Infine,

Il Protocollo citava le Direttive del Parlamento Europeo e del Consiglio (2006), sulla parità di trattamento nell’occupazione maschile e femminile e, all’art. 6, prevedeva la diffusione dellacultura di genere attraverso la realizzazione di moduli didattici incentrati sulladifferenza di genere da realizzare presso le scuole di ogni ordine e grado; progettazione e attuazione di percorsi formativi rivolti alla diffusione della prospettiva di genere in ambito istituzionale e politico presso le Università.

Il Tavolo di lavoro aveva funzioni di analisi, studio, indirizzo, coordinamento e pianificazione delle azioni concernenti i diritti e le P. O.a tutti i livelli della scienza, della tecnologia e della ricerca scientifica; doveva indicare soluzioni per consentire una maggiore diffusione della cultura delle differenze di genere, incoraggiando i principi enunciati nella Carta europea dei Ricercatori e del Codice di condotta con riferimento alle procedure di assunzione e progressioni di carriera, condizioni di lavoro e sicurezza sociale.

Il Tavolo era presieduto congiuntamente dal Direttore generale per l’Internazionalizzazione della ricerca del Miur e dal Direttore Generale del Dipartimento per le P. O. della Presidenza del Consiglio; vi sedevano la Presidente della Conferenza Nazionale dei ComitatiP. O. delle Università; la Presidente dell’Associazione Nazionale Coordinamento Comitati Pari Opportunità, cioè la sottoscritta; il Direttore Centrale Istat; rappresentanti dei Ministeri per la Pubblica Amministrazione e Innovazione, Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Ministero della Salute, dello Sviluppo Economico, Stato Maggiore della Difesa; Commissione Italiana Unesco; Consiglio Nazionale Ricerca (Cnr); Agenzia Enea; Istituto Nazionale Fisica Nucleare; Agenzia Spaziale Italiane; Istituto nazionale Astrofisica; Censis; Associazione Donne e Scienza; Esperte/i.

Ritenevo il Tavolo l’applicazione concreta del Mainstreaming, cioè l’integrazione della prospettiva dell’uguaglianza di genere in tutti i livelli delle politiche decisionali.

Neppure a dirlo, il lavoro al Tavolo era gratuito poiché il nostro Paese considera le P. O. politicheresiduali, non degne di grandi investimenti, perciò ad altre/i esperte/i venivano pagate e superpagate consulenze mentre a chi si occupava di P. O. dovevano bastare la passione e/o motivazione personali. Il limite era scontato: fornire suggerimenti e contributi originali senza avere alcun potere decisionale. Ero comunque convinta che nella logica dell’autonomia degli Atenei e considerata la profonda fase di cambiamento sociale e culturale che l’Italia attraversava, quella del Tavolofosse una partitada giocare. Oggetto di discussione, le Linee Guida per i programmi di promozione dell’uguaglianza di genere nella scienza elaborate nel Progetto Prages,

practising gender equality in Science coordinato dal Dipartimento P. O., la formazione di genere, la gender medicine.

Le note vicende politiche e ministerialicomportato la fine dei lavori; poco, diveramente concreto è accaduto da allora, a livello istituzionale.

Le donne a vario titolo, singolarmente o come gruppi di insegnanti, hanno continuato a reclamare una formazione non sessista e non passatista attraverso innumerevoli iniziative e la formazione di collettivi e associazionismo a tema.

Personalmente ho continuato, come altre Colleghe, a disporre liberamente degli spazi offerti dalle Università, ma senza un disegno organico; ho partecipato a Gruppi che, poco prima del Covid-19, si riunivano presso la Conferenza Rettori delle Università italiane (Crui): organismo che su oltre 80Atenei (aderenti), conta un numero, oscillante e massimo di 6 (sei) Rettrici.

L’impulso l’aveva dato la Rettrice della Basilicatache, qualche anno prima, aveva protestato per la partecipazione dell’allora Rettore di Sapienza alla giuria del Concorso di Miss Sapienza.

I Gruppi si riunivano, in presenza, su tematiche diverse che ognuna di noi liberamente sceglieva: Formazione di genere(compreso il sessismo della lingua), smart-working, bilancio di genere, donne e scienza. Il gruppo delle bravissime ingegnere che ha lavorato al“bilancio di genere” ha prodotto Linee Guida on line e cartacee presentate al Miur (2019) e che alcune Università hannoattivato.

L’Università di Cassino e del Lazio Meridionale sta procedendo all’attivazione attraverso il Comitato Unico di garanzia anche perché senza un “bilancio di genere” non si potrà partecipare alle gare pubbliche e alla roadmap europea.

Non si può dire che proprio nulla sia accaduto in questi anni, ma certo il divario fra Paese reale e istituzioni si è accentuato. Cosa dire delle proteste che si sono rese necessarie per allargare il Comitato Tecnico Scientifico dopo che alcune ricercatrici precarie hanno fatto scoperte importanti e dopo la fuoriuscita di altre, andate all’estero a cercare lavoro e riconoscimenti?

La politica per ora ha vissuto di parole, le donne appartenenti al mondo reale cercano i fatti. 

Non ho mai perso la convinzione, nei trent’anni trascorsi all’Università di Roma Tre (dove sono stata una componente del Dottorato di Pensiero politico e Gender’s Studies)e in quella di Cassino e del Lazio Meridionale, di come, quando e perché, donne e uomini, ragazze e ragazzi, oltre ad aggiornarsi di propria iniziativa, secondo i loro desideri, non possano ricevere un’istruzione adeguata alla loro contemporaneità. E giungo sempre alla stessa conclusione: si ledono i loro diritti democratici alla conoscenza; s’inficia una consapevole cittadinanza europea costruita sui pilastri delle P. O. e del gender equality, contro ogni discriminazione.

Non è ora di istituzionalizzare le discipline di genere?