Non c’ero, ma c’ero. Suppongo che sia il sentire comune di moltissime che
non sono potute andare a Roma. E’ trascorsa ormai una settimana, ma l’entusiasmo scalda ancora il cuore con le immagini memorizzate di tante donne tornate a manifestare contro la vergogna della violenza dei maschi che iniziano la loro voglia di guerra sul corpo delle donne.

{{Forse è presto per un bilancio, ma vale la pena di provarci}}, tanto sono ricchi i messaggi che ne derivano (anche con la posta elettronica).

Non intendo neppure parlare di {{Miriam Mafai}}, divenuta ignara di fatti che, per età, dovrebbe conoscere benissimo. Nessuna, infatti, può ignorare che, per avere una legge contro lo stupro non da oggi giudicata inadeguata, le donne italiane hanno impiegato vent’anni e sette legislature, pur abbreviate. Così come nessuna può ignorare che {{il femminismo negli anni Settanta (del secolo scorso) era fortemente, come posizione “di genere”, anti-istituzionale}}: chi entrava in Parlamento “passava dall’altra parte”, nella fossa dei leoni del potere maschile. Perfino qualcuna di quelle che avevano voglia di sperimentarsi era d’accordo.

D’altra parte, in qualche modo {{resta vero che il potere non è “di genere”,}} ma rigorosamente neutro e alle donne si concedono erogazioni di benefici e, perfino, di posti. La soglia che anche le donne varcano seleziona e anche noi ci adeguiamo alla designazione politica: i partiti privilegiano personale affidabile per fedeltà e disciplina agli indirizzi normativi. Che sono ineludibilmente maschili e legano le donne alla connivenza. Con un prezzo che il genere consente a pagare e che apparenta la casalinga – che porta tutto sulle spalle e privilegia tutti (i bimbi che accompagna all’asilo, il marito a cui preparare la cena e stira le camicie, il suocero a cui fa assistenza, l’affitto da pagare e il mondo da sostenere) ponendo se stessa per ultima, senza permettersi tempo per sé – con la parlamentare che premette agli interessi delle donne, la democrazia, le istituzioni, la maggioranza, il partito, perfino il segretario.

Ho {{un ricordo specifico di Giglia Tedesco}}, certamente la comunista meno adeguata al Partito: era la seconda legislatura che affrontava la violenza sessuale, ancora “reato contro la morale” (e, quindi, penalmente irrilevante) e, ancora una volta, si era in fase di stallo al Senato. Io – che facevo parte di un gruppo storico importante e libero da vincoli, la Sinistra Indipendente – chiesi a Giglia se non era opportuno andare allo scontro per dimostrare al paese di chi fosse la responsabilità della mancata approvazione di una norma che non costava una lira alle finanze dello Stato ed era gradita a tutte le donne, dall’estrema sinistra
all’estrema destra. Giglia mi fece presente che {{neppure i comunisti erano d’accordo di estendere il reato di violenza al matrimonio}}.

La terza volta che la legge si presentò, a Montecitorio, quando cadde il primo articolo, la relatrice, che era la {{comunista Angela Bottari}} (che avevamo visto nominata a rappresentarci con grande soddisfazione per essere una donna, siciliana di sinistra) si dimise d’impeto clamorosamente e il capogruppo del Pci, che era {{Napolitano,}} la redarguì aspramente. Solo il giorno seguente anche il partito riconobbe giusta la posizione della relatrice, per l’esplosione di rabbia delle donne che affollavano la soglia del Parlamento, richiamate da {{un tam-tam che oggi sembra prodigioso in assenza dei cellulari.}}

Chi era attiva in quegli anni non può dimenticare la mortificazione dei
{{ritardi nell’approvare una legge}} che, ripeto, andava a beneficio di tutto l’elettorato e che, clamorosamente, denunciava i maschi “per genere” ostili alla libertà femminile.

Anche sulla presenza di “{{uomini solidali}}” nel corteo rifarei in primo luogo memoria del vecchio separatismo. Le donne non ammettevano gli uomini per riappropriazione del proprio genere, e per libertà: uomini perbene e contrari alla violenza ce ne sono sempre stati (mio padre lamentava che ci fossero uomini che facevano più carezze al cane che alla moglie); ma chi interveniva nei gruppi del movimento femminista in compagnia del proprio compagno,vedeva farsi ostile l’espressione dell’uomo che si rendeva conto che “anche la sua donna” condivideva le accuse rivolte al genere maschile e, quindi, era scontenta di lui. Le cose sono in qualche modo cambiate soprattutto perché sia noi, sia le più giovani siamo capaci di confronto e di argomentazione. Tuttavia, direi che, mentre convegni e dibattiti possono essere aperti agli uomini, è stato giusto {{riservare una manifestazione sulla violenza alla nostra dignità}}. Gli uomini che capiscono la gravità dei maltrattamenti e degli stupri sono molti e fanno bene a condannare le violenze; ma bisogna anche che si interroghino sulle ragioni che spingono i maschi a fare la guerra incominciando dal corpo delle donne. Non sarà male
se un giorno apriranno a noi un loro corteo.

Ma, se non va dimenticata la storia, bisognerà anche confrontarsi
sull’oggi. Guardando le immagini in diretta su La 7, ho visto{{ “le ministre” e le contestazioni}}: non mi sono meravigliata che la televisione chiedesse il parere delle autorità, come da tradizione maschile che si estende automaticamente alla professionista donna. Mi è sembrato poco politico, invece, che le donne di governo non invitassero la giornalista a rivolgersi alle ragazze che avevano voluto la manifestazione, se l’erano organizzata ed erano le protagoniste: sarebbe stata una buona propaganda anche per loro. Si vede che, come Mafai, anche loro erano {{immemori dello stile e degli umori del femminismo.}}

Tuttavia, dalle cronache e dalle e-mail successive, mi è sembrato di dover evidenziare {{una contraddizione delle compagne}}. Molte delle 150.000 che erano a Roma coincidevano con le 120.000 firmatarie della proposta 50 e 50 : in qualche modo, chiedendo l’equilibrio della rappresentanza in ogni sede, potrebbero aspirare a governare. Le ministre facevano da specchio ai loro desideri. Per questo non me prenderei troppo; a meno che non si tratti di antipolitica, nel qual caso personalmente mi dissocio.

La cosa che più mi preme è, però, un’altra: {{una differenza grande tra i
movimenti di venti o trent’anni fa e di oggi è che non basta manifestare}}: adesso sulla rete ci vogliono i progetti concreti e le proposte per dare senso e forma ai nostri interessi. Anche tra donne non è facile l’intesa e l’unità; ma {{la politica non è né solo pensiero né sola organizzazione.}} E la struttura delle istituzioni è inevitabilmente neutra: piegarla alla cultura della (e delle) differenze sarà dura. Il rischio è l’omologazione.