Fa veramente piacere leggere un articolo scritto da un ricercatore dell’ambito psicologico sulle differenze di genere. Di solito psicologi e clinici non sono così interessati agli aspetti sociali e culturali della psiche. Anzi, li snobbano volentieri.Diego Lasio del Dipartimento di Psicologia dell’università degli Studi di Cagliari, ha tenuto una relazione sul tema “Differenze di genere e distribuzione del carico familiare nelle famiglie eterosessuali” nell’ambito del convegno nazionale “{La relazione di coppia tra stabilità e cambiamento}”, promossa dalla SIPRe (Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione) nel marzo del 2010 e pubblicato nel n. 2/2011 della rivista Ricerca Psicoanalitica.

E’ vero, scrive Lasio, che i mutamenti epocali in cui anche l’Italia è stata coinvolta, hanno comportato l’avvio di un processo di ridefinizione dei ruoli coniugali e genitoriali non più rigidamente basati sulla distinzione in base al genere dei partner.
_ Ma è altrettanto vero che in Italia la responsabilità principale delle attività di cura rimane a carico delle donne per un numero di ore notevolmente superiore agli uomini, anche quando sono in attività lavorativa.

Sembra banale scriverlo, ma questa divisione dei compiti su base sessuale conferma “la tendenza dei partner a percepire il maschile e il femminile come profondamente differenti, portatori di attitudini e competenze distinti che giustificano l’assunzione di ruoli e responsabilità diversi da parte dell’uomo e della donna”.

Questa “tendenza” a una visione dicotomica dei generi è vissuta ancora come “conseguenza naturale del dato biologico”, dando ragione “della dominanza maschile”.

Nella cultura occidentale è in fondo radicato l’essenzialismo biologico che pretende siano naturali le differenze tra donne e uomini. Si tratta proprio di un “sistema socio-culturale” che è posto a fondamento dei processi di costruzione dell’identità mediante la continua interiorizzazione di una precisa visione del genere.

Chissà se al festival annuale di filosofia (16-18 sett.) della Fondazione San Carlo di Modena che ha come argomento la Natura, qualcuno si ricorderà del problema dei generi! Roberto Esposito, filosofo assai noto, ha scritto un articoletto il 30 agosto (“Come è cambiata l’idea di Natura” La Repubblica) con riferimento al Festival modenese.
_ Si chiede: “Cosa dobbiamo intendere con tale espressione? Come si congiunge l’apparente fissità della natura, alla fluidità dell’esperienza umana? Insomma, la nostra vita appartiene allo scenario mobile della storia o a quello, ripetitivo, della natura?”.

Resta di fatto che, come annota il ricercatore dell’Università di Cagliari, le differenze (caratteristiche!) tra maschile e femminile sono sempre state ricondotte a un discorso essenzialista, ovvero al determinismo sessuale.

Con la conseguenza che le disuguaglianze stesse sono ricondotte a una natura che in quanto tale non può essere messa in discussione.
Semmai va tutelata: cosa che fanno le religioni monoteiste poiché ritengono che la natura sia stata creata dalla divinità; pertanto eterna e immutabile.

La sociologa algerina Marnia Lasreg, autrice di un bel libro ({Sul velo}, ed. Il Saggiatore, 2009) esprime bene questa posizione quando a pag. 107: “ {L’uomo si abitua al velo (come si era abituata mia madre) senza rendersi conto dell’effetto che può esercitare sulla donna. Lo considera parte di lei. Non si chiede se è contenta di portarlo, se limita i suoi movimenti o se influisce sulla sua visione di se stessa e degli altri.
_ Il velo diventa una cosa naturale, come il sole, il cielo o l’aria che Yacine impediva a sua madre di respirare liberamente. Come tanti altri uomini, anche lui riteneva naturale che una donna lo indossasse e che un uomo dovesse assicurarsi che lo facesse.
_ Il velo è indiscutibile, viene dato per scontato, e la ragione di questo è lampante. Esiste perché deve essere indossato. Deve essere indossato perché esistono le donne. E le donne devono portare il velo. Questa naturalizzazione, questo farne una seconda natura, diventa la giustificazione fondamentale che avanzano i suoi fautori e le donne che lo portano. Il velo fa parte dell’ambiente fisico in cui vivono, è un oggetto familiare del loro orizzonte sociale. La realtà della persona che lo porta perde importanza davanti al suo significato simbolico. (…) Per un uomo, il velo fa parte integrante della sua identità anche se non è lui a portarlo.}”.
Il velo, secondo la sociologa algerina, cristallizza la differenza tra uomo e donna aggiungendosi a quella biologica.

La famiglia è il contesto nel quale la differenza di genere è riprodotta: il modo di interagire con i figli varia in base al loro genere. Sia i genitori italiani, che i genitori immigrati musulmani, si atteggiano con figlie e figli in base agli stereotipi di genere inconsciamente interiorizzati e che, però, garantiscono l’accettazione e il riconoscimento parentale e sociale. In entrambi i contesti culturali (il “mentale” cattolico o islamico) è facile sentire dire che figlie e figli sono liberi di scegliere ,per esempio, l’indirizzo scolastico alle superiori o all’università, o , eventualmente, di mettere, oppure no, in età adulta il velo . Appunto, come se non esistesse il condizionamento psicologico da parte dei genitori e della comunità di appartenenza.

Come se l’io….fosse padrone in casa sua e l’inconscio fosse un’invenzione degli strizzacervelli.

Diego Lasio fa un esempio di estrema e inequivocabile chiarezza: “Per una donna occuparsi della casa e dei figli può essere un modo per confermare la propria adesione ai tratti socialmente attribuiti alla femminilità, così come per un uomo scegliere di non occuparsene, o comunque di avere una responsabilità inferiore rispetto alla propria partner, può diventare un veicolo per confermare la propria identità maschile.”.

Roberto Esposito nell’articolo citato, prosegue il suo argomentare sulla natura, scrivendo : “Ciò che è presentato come un dato viene imposto come una norma da cui non si può derogare. Del resto da sempre l’immagine della natura umana è stata costruita, e utilizzata, in funzione di contrasto o di esclusione rispetto a categorie di uomini considerate diverse e inferiori. “.

Categorie di uomini? Sì, certo, ma perché non specifica : rispetto anche alle donne considerate, naturalmente inferiori?

Nell’emigrazione fioriscono siti in lingua italiana delle varie comunità islamiche per confortare, confermare e formare i “credenti “ alla vera interpretazione del Corano.
Cos’ si può leggere sul sito [www.arabcomint.com->http://www.arabcomint.com] che :”{L’islam si adatta perfettamente, e con garbo, alle naturali inclinazioni dell’animo umano, maschile e femminile. Esso non tollera coloro che sono inclini ai pregiudizi contro le donne, o che operano discriminazioni tra i sessi. La donna, musulmana è la compagna dell’uomo, in nulla inferiore a lui. L’uomo non ha potere sulla donna, tranne che nello specifico contesto delle relazioni familiari. Secondo l’ottica islamica, queste relazioni si devono svolgere in uno spirito di mutuo rispetto, collaborazione, consultazione, ed in esse non deve esserci spazio per lo sfruttamento e la sopraffazione da parte dell’uomo sulla donna.}”. Tutto ok?

E no, ecco il richiamo alla natura che inchioda le donne : “{Iddio ha assegnato alla donna musulmana un ruolo specifico, nell’ambito dell’ordine islamico, mediante lo svolgimento del quale essa concorre alla responsabilità collettiva di preservare l’essenza religiosa della società}.”.

La donna nell’Islam, si sostiene, a differenza di quanto avviene in Occidente, non può essere considerata un oggetto di piacere ad uso e consumo degli uomini. Ecco che allora la “{sua dignità può essere osservata dalla modestia dell’abbigliamento}.”

Sì, perché “{Il velo, comunque, non è che il simbolo materiale di alcune caratteristiche morali che l’Islam incita a perseguire, e cioè l’onore, la dignità, la castità, la purezza, l’integrità}.”.

In un altro sito musulmano (AQIDAH) : “{Una nazione che perde la castità della donna è come se perdesse il suo onore, la sua gloria, il suo Stato, il suo futuro, così come le generazioni a venire.
_ In rapporto a tutto ciò, gli uomini della nostra epoca devono rivedere la loro fede, le loro opere, ma anche il loro ruolo di “pastori” in seno alla famiglia. Gli uomini della comunità musulmana devono riflettere di nuovo sulla fede (îmân), sulla castità delle loro figlie e delle loro spose, sul modo in cui esse proteggono oppure no il loro pudore (‘awrah, ossia tutta la parte del corpo che l’essere umano copre per pudore), e infine passare all’azione}.”.

E’ di diverso parere la musulmana sociologa autrice del libro citato: “{Quando un uomo afferma che il velo è un deterrente contro le molestie sessuali, in realtà sta dicendo due cose: la prima è che protegge la sua identità sessuale segnalando agli altri uomini che devono tenersi alla larga da sua moglie, sua sorella e a volte anche da sua figlia. (…) il velo diventa un provvedimento formale da prendere, sanzionato dalla cultura, per evitare che l’onore dell’uomo venga infangato}.”

In altri termini il velo è un sistema per “{far dimenticare la loro superiorità e al tempo stesso rafforzare l’identità degli uomini in quanto tali.}”.

Nello stato migratorio assume certamente una valenza maggiore, tanto da essere enfatizzato costantemente in nome del valore della comunità: l’individuo in quanto tale perde di importanza.
_ Non a caso si sono moltiplicati i casi di donne musulmane che agli inizi delle correnti migratorie il velo non mettevano, mentre attualmente sì con una tendenza a imporlo alle figlie.

Il velo non è importante, scrive ancora l’algerina, solo per la persona che lo porta “ma anche per gli altri.”. Gli altri siamo noi, gli,le occidentali, non meno che la comunità di appartenenza nazionale e religiosa.

Renzo Guolo è un autorevole sociologo delle religioni, in particolare dell’Islam che spesso scrive anche sul quotidiano La Repubblica. Nel mese di agosto, nel pieno della guerra civile in Libia, ha scritto un articoletto (Amazzone sposa bambina, essere donna in Libia, 27.9) , nel quale spiega come il diritto consuetudinario o il riferimento alla shari’a hanno spesso prevalso contro le norme modernizzanti.

E allora si chiede a conclusione: “{Sapranno i Paesi Occidentali, che tanto hanno fatto per sostenere il cambio di regime, far pesare la loro influenza a favore dei diritti delle donne nella nuova Libia? O il rispetto dell’ “identità e della tradizione” invocato dai nuovi governanti prevede ancora una volta il silenzio?}”.

E’ una domanda legittima nel clima “multiculturale” che caratterizza gran parte della sinistra italiana, solitamente critica verso la destra culturale che, più o meno larvatamente le medesime posizioni, come si evince da un dèpliant che presenta degli incontri a Brescia verso la fine di settembre con il “patronato” della Regione Lombardia e la collaborazione e il sostegno della Commissione Pari opportunità del Comune di Brescia.

Titolo degli incontri:”{ Di donna in donna. Essere donna. Risposte d’amore nella sofferenza}”. Nella presentazione si legge, tra l’altro: “Pari opportunità tra Uomini e Donne significa permettere che una Donna possa realizzarsi senza rinnegare la sua femminilità, la quale comprende anche il fondamentale aspetto generativo.
_ E’ necessario proporre un nuovo modo di ‘pensare la Donna’ che non la mortifichi, ma recuperi la differenza sessuale rispetto all’Uomo e ne valorizzi la complementarietà.”. Un “nuovo modo”?