” IL MITO DI PRETTY WOMAN” – La prostituzione è stata al centro di feroci contrapposizioni tra donne: due idee di libertà, quella di prostituirsi e dall’altra parte quella dalle imposizioni del desiderio, o pretesa, maschile.  Era un tempo nel quale il femminismo teorizzava su una realtà poco conosciuta e occultata, un tempo nel quale la violenza degli uomini sulle donne non si chiamava femminicidio. Moltissime condividevano un’idea sullo stupro e la sopraffazione sessuale maschile, che molte “almeno una volta” avevano provato o temuto, ma pochissime lo mettevano in relazione con il vissuto di donne lontane e nascoste, le prostitute.

Nelle istituzioni le contrapposizioni erano altrettanto teoriche: gli uomini al potere hanno sempre ben nascosto il senso politico della prostituzione, che pure sul piano dell’esperienza personale conoscevano bene, fino a convincersi che per occuparsi “del problema” bastasse ogni tanto scontrarsi ideologicamente sulla “legge Merlin”, anche dopo la sua approvazione nel 1958.

Tutto è cambiato quando, sulla scia di un pensiero e di pratiche femministe contro la violenza sessuata, la parola è stata presa dalle testimoni uscite dalla prostituzione. Donne come Rachel Moran, l’autrice di “Stupro a pagamento” (il nuovo capolavoro del pensiero femminista, secondo Luisa Muraro), costituiscono il fulcro di una rete, di un femminismo che si è riappropriato delle parole su quella che è per molto tempo stata la parte misconosciuta della violenza maschile, misconosciuta e per questo la più pericolosa per le donne e sul piano culturale.

Quando le parole della realtà vissuta diventano pubbliche, irrompendo nella realtà presunta, tutto cambia: in un tempo relativamente breve si è creata l’evidenza che volere la regolamentazione della prostituzione, significa semplicemente volere l’espansione e lo sviluppo del mercato delle prestazioni sessuali. Significa volere la prostituzione.

Chi vuole il riconoscimento del libero mercato delle prestazioni sessuali avverte, suo malgrado, che la verità soggettiva nelle parole di Rachel rivela la verità del loro prodotto. Non solo la rete abolizionista che vuole l’adozione di una legge che punisca anche i clienti delle prostitute, la minaccia è anche e soprattutto la parola contenuta in un libro che descrive l’essenza del mestiere più antico del mondo: stupro. Quello stesso stupro che la politica dice di condannare, ma che è disposta a tollerare purché sia in famiglia o a pagamento.

A Bologna, lo scorso anno, in occasione della concessione del patrocinio del comune alla presentazione del libro di Rachel, si è verificato un vero e proprio scontro istituzionale. I “liberalizzatori”, questa volta del PD non volevano che lei, l’autrice, parlasse e hanno preteso il ritiro del patrocinio.

Non l’unico esempio; ad ogni incontro pubblico della rete s’è visto ripetersi un copione: i pro-sex work contro il presunto moralismo delle abolizioniste. Sempre lo scorso anno anche alla Casa delle donne di Roma, durante la presentazione del libro, l’irruzione “dei liberatori” ha copeto la voce di Rachel e delle abolizioniste. Non i vetusti nostalgici dei bordelli del “si stava meglio quando si stava peggio” o uomini che rivendicano il loro diritto a fare sesso, ma è il “nuovo femminismo” a voler impedire la testimonianza di una donna. La parola d’ordine è libertà e autodeterminazione, come se la prostituzione, dove la sostanza è l’espropriazione del corpo, potesse essere la formulazione per un nuovo “io sono mia”.

Appunto però le cose stanno cambiando, il rito dello scontro a sinistra e nel femminismo ha perso colore forse grazie alla sovrapposizione della legalizzazione “di sinistra” con il progetto di legalizzazione propagandato dalla destra, ma sicuramente di nuovo grazie alle rivelazioni sulla natura di classe della prostituzione così detta libera e autodeterminata, interpretata da donne che per condizione non hanno mai conosciuto la catena dello sfruttamento che invece difendono.

Volontarie, schermo che nasconde la vera contesa i veri protagonisti: gli imprenditori del sesso e i loro committenti.

Julie Bindel (avvocata e attivista e co-fondatrice di “Justice for Women” , autrice di “il mito di pretty woman” il libro presentato il quattro marzo a Napoli) è tra le altre cose una studiosa attenta della catena dello sfruttamento industriale, trans-nazionale, del sesso a pagamento che cattura un numero sottostimato di donne, pur in una dimensione già spaventosa, ed è lei che rivela la vera natura dello scontro in atto: uno scontro tra le lobbies che commerciano in esseri umani, principalmente donne, e il movimento abolizionista. È la pubblicazione di un rapporto dettagliato su incontri con le vittime sopravvissute, ma anche coi “protettori”, gli imprenditori, clienti e mercati contigui della pornografia e i politici. È un testo politico che smaschera il movimento dei “sex workers” e rivendica la storia di un conflitto antico, silente perché silenziato. Ci sono donne che hanno disseminato di stazioni sicure, sebbene sempre minacciate, questa specie di ferrovia sotterranea che, si deve sapere, è stata costruita da un genere di femminismo al quale si possono rubare le parole ma non la carne e il genere, perché ha una grande storia. Julie Bindel e Rachel Moran lo hanno fatto, non da sole perché hanno saputo incontrare la politica che, per esempio, in Italia conserva anche il lascito di Lina Merlin.

Ci vuole ancora coraggio e resistenza (femminista, non a caso una delle associazioni della rete abolizionista che porta avanti la battaglia per l’affermazione del “modello nordico” si chiama Resistenza Femminista), ci vuole l’ardire di dichiarare che la prostituzione può finire.

Il fatto che un’autorevole rappresentante della città Metropolitana di Napoli, come Elena Coccia, abbia offerto il patrocinio alla presentazione de il “Mito di pretty woman” (per sfatarlo e rivelare il grande imbroglio della finta libertà di prostituirsi), è segno di coraggio, visto che a suo tempo il sindaco De Magistris si era pronunciato per lo “zoning” (una forma di recinzione delle prostitute, in favore del decoro cittadino). Anche l’assenza di contestazioni “femministe” è però un segno: della confusione tra istanze “regolamentariste” di destra con quelle di sinistra. E ancora è importante che la presidente della Commissione Femminicidio, Valeria Valente, sia intervenuta nel dibattito prendendo un impegno non proprio in linea con le variegate posizioni nel suo partito.  Tra tanti segnali di cambiamento, quello che ci riguarda nel modo più diretto è quello dato dal coraggio di tante singole donne di dichiarare, sempre più numerose ad ogni appuntamento, il proprio errore nell’aver creduto alle parole confuse di un dibattito surreale sulla libertà delle donne.

Quel dibattito surreale che ha armato l’istanza sollevata in tribunale dai legali di Tarantini e che ha portato la legge Merlin al vaglio dei giudici della Corte Costituzionale.

C’è attesa in queste ore per la sentenza e dirà a tutti in che paese siamo. Noi comunque sappiamo che donne siamo.