Catherine Deneuve e Asia Argento Numerose femministe e Asia Argento, una delle tante donne che hanno accusato Harvey Weinstein di molestie sessuali, si sono scagliate contro Catherine Deneuve, dopo la lettera aperta in cui ha attaccato il movimento #MeToo descrivendolo come una persecuzione nei confronti degli uomini. L’attrice 74enne e un altro centinaio di donne hanno firmato il testo, pubblicato da Le Monde, in cui hanno affermato “l’indispensabile libertà di offendere” e “d’importunare” degli uomini, contro un femminismo che affermano abbia “fattezze di odio degli uomini e della sessualità”. La lettera di Deneuve afferma poi che “gli uomini siano stati puniti sommariamente, estromessi dal loro lavoro quando tutto ciò che hanno fatto è stato toccare il ginocchio di qualcuno o tentare di rubare un bacio”.
Catherine Deneuve: “Difendiamo la libertà di importunarci”
Argento, che fu tra le prime donne ad accusare il produttore di Hollywood, ha twittato in risposta: “Deneuve e le altre donne francesi dicono al mondo come la loro misoginia interiorizzata le abbia lobotomizzate sino al punto di non ritorno”. Un gruppo di femministe francesi ha poi risposto alla lettera attraverso una radio, definendo Deneuve e le altre firmatarie come “difensori dello stupro”. Affermare che il movimento #MeToo sia “puritano” e spinto “dall’odio per gli uomini” è “irrispettoso” nei confronti delle vittime di abusi e molestie sessuali, secondo le femministe, e mira a “richiudere il coperchio” che è stato finalmente aperto dallo scandalo Weinstein. (www.lapresse.it)

Sul palco dei Golden Globes (il premio per le migliori produzioni televisive) le attrici più note sono state testimoni del movimento antimolestie. Moltissime hanno detto “ci sono anch’io, Me too”. Nelle platee televisive e giornalistiche italiane lo slogan più rumoroso sembra essere invece “Io no”.

Il nome di Asia Argento, la prima a farsi carico della denuncia di molestie e vessazioni nel mondo dello spettacolo, è per lo più presente in contesti denigratori. Ultimamente è taciuto da chi conta sull’oblio mediatico e politico della denuncia esplosiva di un costume antico e strutturato nella catena dell’oppressione femminile.

Le molestie sul lavoro subite dalle donne sono una delle forme più subdole di violenza sessuale, perché sono spesso implicite e usate due volte: come ricatto da parte dei superiori e come diceria che attribuisce automaticamente agli scatti di carriera delle donne la concessione di favori sessuali.

Che le donne fossero sottoposte a questo tipo di vessazione è stato dato sempre per scontato, in tutti i luoghi di lavoro, e le donne hanno sempre dato per scontato di doversene difendere.

I ricatti e le violenze sessuali sono una specie di rischio professionale non dichiarato ma fortemente presente, quasi implicito nel fatto che chi paga uno stipendio si senta anche padrone di chi lavora.

Le tutele per le lavoratrici in Italia sono limitate e insufficienti perché nel nostro paese il reddito per le donne è una specie di concessione e la violenza, come scotto da pagare per la sottrazione alle mura domestiche, è la risposta politica al movimento emancipazionista che del lavoro ha fatto uno dei capisaldi per la dignità femminile. A volte si tratta di minacce, prima dei gesti, a evocare la prospettiva del licenziamento ed eventualmente l’impossibilità di trovare un altro lavoro.

Operaie, impiegate, attrici e donne nelle istituzioni, studentesse, madri e figlie sanno di cosa si parla e la sporadicità con la quale la cronaca si occupa delle vittime di questa pratica aggrava la loro solitudine. Delle donne lavoratrici che hanno denunciato (meritando poche righe in cronaca locale) spesso non conosciamo la sorte se non anni dopo in processi che finiscono in patteggiamenti per il colpevole.

I media e la stampa hanno grandi responsabilità, quando non hanno colpe, diffondendo il paradigma dell’ineluttabilità della violenza sessuata, mentre ancora sopravvive una rappresentazione porno-erotica di stupri e violenze.

Il paradigma culturale progressista cui sembra ispirarsi, tra gli altri, Maurizio Mannoni di “Linea notte” è quello di suggerire il dubbio sulla parola delle vittime, lasciando ampio spazio agli uomini e alle consenzienti, stabilendo da un pulpito di potere cosa sia violenza sulle donne e cosa no.

Mentre a Beverly Hills le avversarie del movimento “me too” hanno mostrato vistosamente la loro differenza lasciando il nero alle vere protagoniste, in Italia assistiamo alla curiosa performance di donne che pretendono di parlare per le vittime difendendo i molestatori. Il travestimento delle consenzienti pervicaci è un lasciapassare sicuro anche per tutti quegli uomini che le ospitano e che sembrano pensare a un futuro dove il loro territorio di caccia resti sempre uguale: redazione, set, fabbrica o scuola che sia. E sempre in Italia la magistratura ancora è impreparata di fronte all’applicazione della Convenzione di Istanbul, in tutto e per quel che la riguarda specificamente, tanto che non mancano denunce per reati di fattispecie a carico di più di un giudice.

Quello che sta succedendo è che lo stato delle cose così come è, espressione di poteri che hanno attraversato secoli e regimi, non è inattaccabile e che le donne che parlano fanno la differenza.

Una volta per tutte la voce di quelle donne vestite di nero ai Golden Globes si è levata contro le molestie e le violenze sul lavoro e per discuterne, almeno in America, a nessuno è passato per la testa di intervistare una diva che quella sera ha scelto il rosso, se non come esempio di propensione a confondere la seduzione con l’aggressione e di accettazione della brutalità implicita in un corteggiamento “pesante”.

La testimonianza potente che è emersa dalle femministe dello spettacolo se è caccia alle streghe, ma in Italia ne ha scatenata una: quella dei complici della violenza contro le donne che denunciano. (Napoli, 11 gennaio^’18