È difficile in questo momento condannare l’impoverimento del linguaggio, in primo luogo quello dei quotidiani, della televisione e dei social media, tuttavia, va fatto un invito a non essere sciatti nell’uso delle parole. E anche nel pensiero, sia maschile che femminile, che si esprime in questi giorni, spesso ritrovo poco rigore, molta approssimazione, con il risultato di farci affondare in una mucillagine di senso.

In questi giorni le parole più ricorrenti per descrivere lo stato d’animo soggettivo sono: paura, sia quella di morire che quella di vivere; angoscia, sia come stato d’animo dell’essere sull’orlo del nulla, com’è stato detto e rappresentato da immagini da fine del mondo, che quella vissuta come incubo, una sorta di trauma che ci rende inermi. L’angoscia schiaccia, comprime, ci fa prigionieri.

E poi ci sono le parole che parlano della realtà: “nulla sarà più come prima” e subito si pensa all’economia, ai sistemi di produzione materiali e immateriali; alla solidarietà tra territori e comunità, a una tregua tra gli Stati Nazione e il resto del mondo, a come far convivere cosmopolitismo e universalismo; a come proporre una tregua, magari una sorta di pace tra l’Uomo e la Natura. Ma poi si esce dal sogno e si capisce, da svegli, che per i cambi di civiltà ci vorrà tempo. Il tempo si sa è cosa complessa. Gli antichi dicevano che il futuro arriva alle spalle e reclama un’umana competenza quando dice di noi, e oggi siamo in pieno caos che alimenta arbitrarietà e contraddizioni.

Il cervello è un continuo turbinio di idee e di immagini nel quale la coscienza e l’io affondano come un vascello in tempesta. Non aiuta nemmeno aggrapparsi alla ragione, che, si dice, domina tutto, “sebbene assediata e vinta”. Non c’è niente da fare, siamo totalmente presi dallo spaesamento. Il sentirsi spaesati ci fa avvertire un senso di solitudine e di smarrimento. Un senso di estraneità che si prova quando ci si trova in un luogo o in un ambiente sconosciuto. Forse c’è bisogno ancora di silenzio per pensare con chiarezza e provare a dare una forma al reale.

E allora, come dare forma al nostro pensare, al nostro pensiero? Come si fa ad uscire da questa mucillaggine di senso? A superare ogni forma di autoinganno? In questi giorni sto pensando: forse, diventando molesti, proprio a cominciare dalle parole, molestandole.

Quello che fino a ieri ci era noto, conosciuto, ci appare vuoto.

“Noi crediamo per tradizione, per quanto riguarda gli dèi, e vediamo per esperienza, per quanto riguarda gli uomini, che sempre, per necessità di natura, ogni essere esercita tutto il potere di cui dispone” così scrive Tucidide. E Simone Weil: “Non esercitare tutto il potere di cui si dispone, vuol dire sopportare il vuoto. Ciò è contrario a tutte le leggi della natura: solo la grazia può farlo. La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo.” Ora che questo vuoto si è prodotto, dice sempre Simone Weil “bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale.… Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi”.

E anche sul rapporto con la natura, e sui corpi, sembra che la nostra preoccupazione oggi sia, unica, quella di preservarli dal controllo, anzi, più diventano neutri, di genere neutro, più ci sembra che ciò sia possibile, dimenticando, forse, che all’origine della nostra civiltà c’è la rimozione della parola e del corpo femminile. Lo aveva detto Irigaray: per entrare nel mondo, per i presocratici, il tramite era un maestro, una guida, un saggio che insegnava a dire. Era un dire tra uomini, trasmesso secondo un ordine genealogico o gerarchico, che tiene generalmente segreto il fatto che, all’origine, c’è lei-natura, donna o Dea, che ispira il discorso e l’elaborazione del maestro. Continua Irigaray: ”Egli non dice granché riguardo a questa origine, perché le parole gli mancano o perché vuol tenerlo per sé – perché non può o non vuole parlare della relazione con lei”.

Rimuovere e/o nascondere questa relazione ha prodotto qualcosa d’altro rispetto al loro discorso, l’aldilà per il quale gli uomini non hanno parole, e soprattutto logica.

E allora non lasciamoci trascinare dall’impoverimento dei linguaggi che vorrebbero cambiare il mondo ma, andando al sodo, possono solo, forse, migliorare la condizione materiale di chi ne fa uso. Respiriamo aria fresca, torniamo a parlare usando parole esatte, non immobili, sapendo che non esistono parole neutrali. Esiste un grande potere che è quello di dire e di raccontare, ma, per farlo, occorre pensare per capire e, solo poi, raccontare. Non dimentichiamo che “è” – nell’etimologia – significa vero, reale, genuino e che il racconto filosofico si definisce come pratica di conoscere il mondo attraverso l’origine delle parole che si usano e che usiamo. Dobbiamo molestare le parole, ma con grazia, per favore.