Articolo di Silvia Marastoni

A ottobre, per iniziativa della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano, il primo progetto italiano di ospitalità, accoglienza e inserimento socio-culturale per donne migranti e richiedenti asilo promosso da un Centro Antiviolenza autogestito. «Un viaggio per la libertà», spiega presentandolo l’avvocata Manuela Ulivi, presidente di CADMI, «consentirà a donne in uscita dai CAS o dalle strutture SPRAR (dopo aver ottenuto lo status di rifugiata o un permesso di soggiorno regolare) di vivere in una casa-rifugio dove potranno intraprendere un percorso di elaborazione del trauma della violenza e di empowerment personale, acquisendo strumenti di autotutela, di formazione professionale e per la ricerca di lavoro, con l’obiettivo di arrivare alla piena autonomia emotiva, economica e abitativa e di dare compimento alla loro ricerca di libertà».

Occasioni, ragioni e esperienze all’origine del progetto

L’idea, racconta, «è nata alla fine dell’anno scorso, quando il Trust Nel nome della donna (creato da Giovanna Foglia, Fiorella Cagnoni e Serena Foglia per sostenere “imprese” femminili rivolte alle donne, ndr) ci ha offerto in comodato gratuito una palazzina che può ospitare dieci donne con i loro figli. Pensando a come utilizzarla, ci siamo ritrovate a riflettere sui nuovi bisogni che la presenza di tante migranti vede nascere nei nostri contesti, e sulle esperienze che abbiamo maturato in questo ambito anche all’interno della Rete nazionale dei Centri antiviolenza D.i.Re. (Donne in Rete contro la Violenza).

«Sempre più spesso, infatti, negli ultimi tempi, abbiamo avuto richieste di sostegno da parte di donne straniere. Le testimonianze di chi entra per prima/o in contatto con loro all’arrivo in Italia ci dicono che quasi tutte – per non dire tutte – raccontano storie di violenza sessuale e di genere: da quella coniugale o intra-familiare alle mutilazioni genitali femminili, dai matrimoni precoci o forzati agli stupri, dalle gravidanze a rischio o indesiderate ai traumi psicologici acuti; dallo sfruttamento sessuale da parte dei datori di lavoro o nel circuito della tratta ad altre forme di sfruttamento e violenza fisica, psicologica, economica». Tra gli ultimi in ordine di tempo, «anche i racconti delle donne sbarcate dalla nave Diciotti ci confermano che non si può più attendere nel dare risposte competenti e concrete». Ed è una necessità che riguarda anche donne presenti da tempo nel nostro Paese: molte di loro, dice infatti Manuela Ulivi, «ci hanno cercate perché all’uscita dalle strutture in cui erano state ospitate in attesa di “regolarizzazione” tornavano a essere vittime di violenza o maltrattamenti».

Che sia il motivo che spinge alla migrazione e/o venga subita nel corso del viaggio verso l’Europa, nei centri di detenzione libici e perfino, all’arrivo in Italia, nei luoghi di cosiddetta “accoglienza”, la violenza è, dunque, un’esperienza comune. Un trauma, sostiene Manuela Ulivi, «che richiede un affiancamento e un sostegno specifico: competenze, metodologie e pratiche proprie dei Centri Antiviolenza creati dalle donne» che una realtà come CADMI ha elaborato in oltre trent’anni di attività. Fondata nel 1986 all’interno dell’UDI, prima esperienza di questo tipo in Italia, la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano ha infatti affiancato da allora più di trentamila donne in difficoltà; e dall’apertura della prima casa segreta nel 1991 ha seguito oltre 600 progetti di ospitalità, diventando un punto di riferimento essenziale per chi subisce violenza (sia essa fisica, psicologica, sessuale, economica o stalking) e per le realtà aperte in molti altri luoghi seguendo il suo esempio. Oggi, dice Ulivi, «questa competenza è messa a disposizione di donne migranti che cercano un percorso di accompagnamento per raggiungere le autonomie fondamentali, rivista e costantemente aggiornata in rapporto coi cambiamenti che attraversiamo». Nonostante la grande e consolidata esperienza maturata, infatti, «a volte – soprattutto all’inizio – abbiamo scontato la nostra impreparazione, perché le richieste di queste donne ci hanno poste davanti a bisogni e problematiche nuove: dai percorsi formali connessi alle esigenze di riconoscimento legale (di cui le nostre avvocate sono in grado di occuparsi, singolarmente, ma rispetto ai quali ci mancava – e sentivamo il bisogno di acquisire – una competenza collettiva), alla necessità di capire a fondo cosa significa accogliere chi scende da un barcone, arrivando da un viaggio come quello che affrontano (un’esperienza che noi non viviamo direttamente), alla maggior conoscenza e comprensione dei loro contesti di provenienza…».

Il confronto all’interno della Rete dei Centri di D.i.Re. ha messo poi in luce ulteriori difficoltà condivise: come si legge in un suo documento, «Le condizioni di emergenza e discontinuità in cui i Centri si trovano a prestare assistenza a un numero crescente di “beneficiarie”, la gravità e la complessità dei casi da gestire e soprattutto l’acuta problematicità delle donne e delle minori vittime di tratta è diventata […] fonte di particolare preoccupazione per le operatrici di D.i.Re, che hanno sentito il bisogno di rafforzare le proprie conoscenze del fenomeno migratorio attuale e le competenze operative e culturali necessarie per delineare percorsi di sostegno e aiuto di qualità anche per i casi più gravi».

«Queste nostre esigenze», racconta Manuela Ulivi, «si sono a un certo punto “incontrate” con la maggior attenzione prestata negli ultimi anni dall’UNHCR all’“elemento di genere”, e con la sua necessità di acquisire conoscenze e strumenti specifici riguardo alla violenza contro le donne. È nata così, nel 2016, una collaborazione che si è concretizzata nel progetto Samira: un percorso di ricerca e formazione reciproca (il cui rapporto è disponibile sul sito di D.i.Re., ndr) che per noi ha avuto un ruolo molto importante anche nella decisione di destinare questa nuova casa-rifugio a donne migranti. Un’iniziativa che parte da CADMI, ma che sta in relazione con tutta la Rete anche in vista di una sua possibile propagazione in altri contesti».

L’importanza delle relazioni e delle “pratiche solidali” fra donne

«Come tutti i nostri progetti», sottolinea Manuela, «anche Un Viaggio per la libertà è nato innanzitutto grazie alle relazioni, alle risorse personali e economiche messe in campo da donne».

Il Trust Nel nome della donna ne è il primo esempio: come racconta Giovanna Foglia, «già in passato ha sostenuto la Casa, finanziandola per alcuni anni quando i fondi pubblici sono venuti a mancare. E oggi» aggiunge «sono entusiasta di questo nuovo progetto. Ho vissuto una vita nomade, viaggiato in molti Paesi, conosciuto tante donne le cui condizioni di vita somigliano a quelle di chi vediamo arrivare in Italia. Le frontiere non mi sono mai piaciute. Ho sempre considerato il mondo un unico, solo pianeta, e quella di potersi muovere una libertà essenziale. Perciò mi sembra molto importante stare al fianco di donne che – per desiderio o forzatamente – cercano di costruirsi un progetto di vita in Paesi diversi dal loro. Insieme a CADMI vogliamo sostenere la loro scelta di libertà, contribuire a far sì che il loro viaggio abbia un esito positivo. E penso sia fondamentale che le donne assumano come pratica politica il supporto anche economico a iniziative intraprese da altre e a realtà come il Trust, per garantire alle “imprese” femminili sostenibilità e durata nel tempo senza dover dipendere dalle istituzioni o da altri».

È quel che hanno fatto anche una madre e le sue tre figlie: grazie a una parte dell’importante donazione che CADMI ha ricevuto da loro, infatti, sarà possibile coprire l’intero budget di spesa del primo anno.

«Come ci auguravamo, però», dice Manuela Ulivi, «anche istituzioni e soggetti privati stanno iniziando a collaborare al nostro progetto e a sostenerlo»: un impegno in questo senso è stato già assunto dalla Prefetta Luciana Lamorgese e da Fondazione Cariplo (quest’ultima attraverso un contributo di 100.000 euro). Altri, come l’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Milano, stanno guardando con interesse a questa nuova esperienza valutando possibili sinergie.

Anche al rapporto con queste istituzioni, sottolinea Ulivi, «ha contribuito la rete di relazioni costruita nel tempo con donne che operano al loro interno, come la Vicesindaca della Città Metropolitana Arianna Censi e la Presidente della Commissione Pari Opportunità e Diritti Civili del Comune Diana De Marchi».

L’accoglienza come pratica politica femminista

«Come primo passo, preliminare all’avvio del progetto», dice Manuela Ulivi, «nei mesi scorsi abbiamo preso contatti con i CAS e gli SPRAR, e stiamo valutando come organizzarci per gestire il passaggio delle donne che ospiteremo, per evitare che all’uscita dalle strutture si trovino in una “terra di nessuno” o in situazioni di violenza, e possano invece cominciare a riprendere la propria vita nelle loro mani. A seconda della situazione di ciascuna, del suo progetto di vita e del percorso che costruiremo con lei, il periodo di residenza potrà durare da qualche mese a due anni».

Insiste molto, Manuela, su un’idea e una pratica dell’accoglienza centrata sul protagonismo delle donne “ospitate”, sul rispetto della loro autonomia e volontà, e su una modalità di lavoro fondata sull’ascolto, l’attenzione alle singole storie/esperienze, la solidarietà tra donne e la relazione: «elementi da sempre alla base dell’azione di CADMI che – con l’indipendenza – rivendichiamo come nostra specificità di Centro autogestito. Chi opera qui, infatti, compie innanzitutto una scelta politica, e questo fa la differenza: sono donne che hanno elaborato il pensiero e le pratiche del femminismo, quelle che molti anni fa sono state all’origine della nascita di questo luogo».

Questo approccio, sideralmente lontano da quello passivizzante, burocratico e impersonale che connota larga parte delle strutture “ufficiali”, ha orientato anche la ristrutturazione della palazzina, affidata a Emilia Costa, pioniera dell’architettura eco-sostenibile italiana e parte della “squadra” del Trust. Il progetto, spiega infatti Giovanna Foglia, «ha messo al centro la qualità della vita di chi abiterà nella casa. Vedo i Centri in cui chi arriva è tenuta/o come in galera, luoghi recintati in cui si è costretti a vivere tutti insieme in spazi ristretti, senza la minima privacy, e dove spesso manca anche l’indispensabile… Luoghi che ti dicono che non vali più niente. Noi, al contrario, abbiamo voluto ridare dignità a partire dalle condizioni abitative, costruendo una casa accogliente, che non sia solo un tetto, ma un posto in cui vivere bene. L’attenzione per gli aspetti “funzionali” è andata di pari passo con quella per l’agio e per la bellezza. Per questo tra gli spazi comuni ho fortemente voluto anche una “stanza del benessere”: a significare concretamente e simbolicamente che una buona accoglienza e una buona vita non sono fatte solo dello stretto necessario; che l’essenziale – quel che davvero può garantirle – non è il minimo indispensabile per sopravvivere, ma molto di più.

«La stessa cura, declinata anche come responsabilità verso il pianeta e le generazioni future, ha guidato le nostre scelte negli interventi strutturali: abbiamo dato molta importanza ai materiali utilizzati, al tipo di impianti, al risparmio energetico, all’impatto ecologico…».

Adesso che la ristrutturazione è finita, conclude Manuela Ulivi, «Un viaggio per la libertà è pronto a partire. Il nostro desiderio e impegno è quello di aprire la strada a un nuovo modo di fare accoglienza, che sappia anche guardare al futuro di una società davvero inclusiva. E in un tempo in cui intolleranza e razzismo stanno occupando la scena pubblica siamo convinte che un’iniziativa come questa sia più che mai necessaria».

(www.libreriadelledonne.it)

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