Aveva 42 anni, cardiopatica. Due giorni prima era stata sgomberata da un campo abusivo e bivaccava fuori dell’ingresso del Centro di emergenza sociale di Milano. Una morte che rivela lo stato di abbandono in cui vivono centinaia di rom, con un rimpallo di competenze tra l’assessorato alla Sicurezza e quello alle Politiche sociali. E sancisce il fallimento dei Centri

Morire a Milano, sdraiata su un materasso sotto le stelle, perché non si ha altro. Né una baracca, né una tenda. È la tragica e dolorosa fine di M., donna rom di 42 anni, malata di cuore. Un cuore che ha smesso di battere pochi minuti dopo la mezzanotte del 28 maggio. Due giorni prima, insieme ad una decina di altre famiglie (in tutto una settantina di persone), era stata sgomberata dall’accampamento di fortuna, che in questi mesi si era creato nel boschetto attiguo al Centro di emergenza sociale (Ces) del Comune di Milano di via Sacile. Centro nel quale vivono altri rom, circa 180, tra i quali anche la sorella di M. Secondo la Rete rom (alla quale aderiscono Associazione ApertaMente di Buccinasco, Associazione Upre Roma, Associazione di Promozione sociale Fabrizio Casavola, GRT e Naga), si è trattato di uno sgombero “senza preavviso, senza assistenti sociali e senza proposte alternative”.

Per il diritto internazionale, le persone sgomberate dovrebbero ricevere subito un’alternativa valida e lo sgombero dovrebbe essere notificato in maniera scritta. Ma venerdì scorso l’assessorato alla sicurezza, guidato dall’assessore Carmela Rozza, non ha avvisato quello alle Politiche sociali di Pierfrancesco Majorino.

“Venerdì ero all’assessorato alle politiche sociali per un appuntamento e mi hanno chiamato alcune famiglie rom per dirmi dello sgombero – racconta Djana Pavlovic, portavoce della Rete Rom -. E lì in assessorato non ne sapevano nulla”. Tra le persone sgomberate, oltre a M. cardiopatica, c’erano anche una ragazza appena dimessa dall’ospedale e una donna incinta. Oltre ad alcuni bambini. “Sono rimasti senza nulla, visto che la polizia locale ha distrutto tutto, anche le tende – aggiunge -. Ho fatto presente che c’erano situazioni particolarmente delicate”. L’assessorato alle Politiche sociali, vista la situazione, ha allora dato appuntamento a queste famiglie più a rischio per mercoledì 31 maggio. Troppo tardi per M.

La morte di M. rivela, però, che c’è una Milano nascosta, con poveri più emarginati di altri poveri. Con la giunta di Giuliano Pisapia, la competenza sui rom, sugli sgomberi e sui centri di emergenza sociale era dell’assessorato alla Sicurezza e coesione sociale, guidato da Marco Granelli. Con l’elezione di Sala, si è creato un vuoto, con gli assessori Rozza e Majorino che non hanno fatto certo a gara per assumersi l’onere di occuparsene. Tanto che anche chi gestisce il Ces, ossia Casa della Carità e Padri Somaschi, in un comunicato stampa di ieri pomeriggio, sottolineano che “risulta necessario ripristinare un’efficace collaborazione tra istituzioni e terzo settore affinché le persone vengano accolte nel centro nel miglior modo possibile e vengano trovate soluzioni positive anche per chi non aveva trovato in questi ultimi mesi un posto al suo interno, rimanendo per strada”. “Abbiamo più volte chiesto un incontro con l’assessorato alla sicurezza, senza ricevere risposta”, aggiungono interpellati da Redattore sociale.

La situazione dentro e fuori il Ces stava infatti peggiorando di mese in mese. “Il 24 maggio siamo andati con il nostro camper e il nostro medico in via Sacile – raccolta Nerina Vitali, volontaria del Naga, associazione che offre assistenza sanitaria a senza dimora e nelle baraccopoli-. Ci avevano chiamato alcune famiglie ospiti del Ces, disperate. E la situazione che abbiamo trovato era allucinante. C’erano circa 200 persone, in condizioni igieniche molto precarie. Siamo riuscite a visitarne una quarantina: chi aveva mal di denti, oppure mal di testa o lamentava altri tipi di malanni. In più c’erano quelle accampate fuori, nel boschetto. È chiaro che lì mancava una qualsiasi forma di assistenza sanitaria da tempo”.

Il Centro di emergenza sociale di via Sacile è stato costruito nella primavera del 2015. È costato 1,5 milioni di euro. Nelle intenzioni dell’allora assessore Marco Granelli andava a sostituire il Ces di via Lombroso e avrebbe dovuto “accogliere in un anno 600 persone appartenenti a famiglie con minori, di cui 350 provenienti da sgomberi di aree ed edifici occupati abusivamente”. Il problema è che con la chiusura di via Lombroso e l’incendio dell’altro Ces, in via Quarenghi, via Sacile è rimasto l’unico centro. E di fatto il Comune non sa più dove mettere chi viene sgomberato dai campi rom irregolari o dagli appartamenti occupati abusivamente.

La morte di M. non ha solo implicazioni sociali e politiche, ma potrebbe averne anche di carattere penale. I rom presenti la notte del 28 maggio, infatti, sostengono che l’ambulanza sia giunta “solo dopo oltre mezz’ora perché chi in quel momento era responsabile del Centro non si peritava di rispondere alle richieste di aiuto”, come si legge nel comunicato stampa della Rete Rom. L’azienda regionale (Areu) che gestisce il 118 replica che la prima telefonata di richiesta di soccorso è arriva alla mezzanotte e un minuto e che l’ambulanza sia giunta in via Sacile a mezzanotte e nove minuti. “I rom mi hanno raccontato che hanno provato a chiamare anche prima di mezzanotte, ma non sapevano dare l’indirizzo – precisa Djana Pavlovic -. Per questo hanno cercato aiuto chiedendo al custode del Ces, che solo dopo tante insistenze ha aperto il cancello e chiamato il 118”.

Ma Casa della Carità nega questa ricostruzione dei fatti. “Il custode del centro in turno ha risposto prontamente alle richieste di aiuto – precisa – chiamando i soccorsi dal telefono di servizio, che ha effettuato la chiamata dopo che altre persone vicine alla donna avevano già a loro volta chiamato i soccorsi quando questa si era sentita male e proprio perché i soccorsi stessi non erano ancora arrivati”. Tre versione dei fatti, che solo un’autorità giudiziaria potrà eventualmente chiarire. (dp)