rifUn incontro di lavoro organizzato dalla parlamentare europea Barbara Spinelli – GUE/NGL –  con il patrocinio e la partecipazione di:

Università degli Studi, Centro europeo di eccellenza Jean Monnet – Associazione CostituzioneBeniComuni – Associazione Diritti e Frontiere – Associazione Laudato si’ – Gruppo consiliare Milano in Comune. Tanti i e le partecipanti a livelli internazionale.

 

Obiettivi del convegno:

  • Analizzare il concetto di rifugiat* ambientale e le sue implicazioni giuridiche.
  • Dare un quadro della situazione ambientale nei Paesi dai quali provengono le e i profugh*.
  • Denunciare le politiche di accaparramento di suolo e di risorse attuate da aziende occidentali e multinazionali in accordo con i governi locali.
  • Individuare strumenti di monitoraggio dell’uso dei fondi europei o nazionali per la cooperazione e lo sviluppo destinati a regimi che non rispettano i diritti umani.
  • Mostrare che la separazione tra profugh* di guerra e migranti economici applicata nel cosiddetto “approccio hotspot” rischia di essere è lesiva dell’impianto stesso del diritto d’asilo e che l’attuale politica europea dei rimpatri va rigettata nella sua forma attuale.
  • Promuovere un’azione a livello parlamentare europeo per l’introduzione legislativa della figura del o della rifugiat* (interno ed esterno) costrett* alla fuga da una massiccia perdita di habitat.
  • Mostrare che è conveniente, oltre che rispettoso del diritto internazionale, sviluppare al massimo, e modificare, le politiche europee di accoglienza e integrazione di profugh* e migrant*.
  • PER IL PROGRAMMA
  • http://barbara-spinelli.it/wp-content/uploads/Il-secolo-dei-rifugiati-ambientali_Programma.pdf

 

rifugiati-ambientaliDal dopoguerra a oggi, ben 111 conflitti nel mondo avrebbero tra le proprie radici cause ambientali: 79 sono tuttora in corso e, tra questi, 19 sono considerati di massima intensità.

Nonostante le misure fin qui prese per contenere i cambiamenti climatici e l’aggressione alle risorse naturali, l’espulsione dal proprio habitat di ampie quote della popolazione mondiale a causa del deterioramento ambientale è considerata inevitabile dalla maggior parte della comunità scientifica, in assenza di provvedimenti più radicali di quelli presenti. Eppure il fenomeno resta di fatto invisibile alle legislazioni e alla politica. Nemmeno la Convenzione di Ginevra e il Protocollo aggiuntivo del 1967 riconoscono lo status giuridico di chi fugge da catastrofi ambientali, specie se originate da azioni e interventi umani sulla natura.

Sono rifugiat* ambiental* quelli che scappano da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche, come lo sono coloro che fuggono dalla desertificazione e dal collasso delle economie di sussistenza in seguito a crisi dell’ecosistema, dovute a cause naturali o attività umane: land grabbing, water grabbing, processi di “villaggizzazione” forzata (che negli anni Ottanta causarono la morte di un milione di persone per carestia, in Etiopia), inquinamento ambientale, smaltimento intensivo di rifiuti tossici o radioattivi, scorie radioattive risultanti da bombardamenti.

Questi flussi si aggiungono a quelli causati da guerre e persecuzioni politiche, religiose o etniche, e talvolta vi si sovrappongono in modo inestricabile. É pretestuoso e miope considerare popolazioni in fuga da condizioni invivibili alla stregua di migranti economici, tuttavia è esattamente ciò che fa la Commissione europea con il cosiddetto “approccio hotspot”, che istituisce due categorie di migranti: i e le profugh* di guerra, ai e alle quali viene riconosciuto il diritto di chiedere protezione internazionale, e i e le migranti economic*, da rimpatriare – con ciò violando il diritto d’asilo.

rif1

Negli anni il numero dei e delle migranti, obbligat* a spostarsi da una terra all’altra perchè costretti dall’impossibilità di abitare il loro territorio, è aumentato in modo vertiginoso. Un fenomeno che ha assunto verie denominazioni : migranti forzat* dall’ambiente (forced environmental migrant o environmentally motivate migrant), rifugiat* climatici (climate refugee), rifugiat* a causa del cambiamento climatico” (climate change refugee), persone dislocate a causa delle condizioni ambientali (environmentally displaced person), rifugiat* a causa dei disastri (disaster refugee), “eco-rifugiat*” (eco-refugee), rifugiat* ambientali.

Ma  ciò che deve far riflettere è che sono 250 milioni di persone: questo il loro numero, previsto nel medio periodo. Una domanda non trova ancora una risposta concreta: chi sono?

Il primo a usare il termine migranti climatici fu il pioniere dell’ambientalismo Lester Brown, nel 1976.  Sono coloro costretti a partire dal proprio luogo di residenza a causa di eventi  estremi.

Al momento, non si sa quanti siano di preciso  i e le  migranti climatici e quindi nemmeno quanti saranno nei prossimi anni. Il primo a dare un numero credibile  fu Mustafa Tolba, ex direttore dell’Agenzia per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) che  nel 1989 dichiarò che circa 50 milioni di persone erano potenziali migrant* climatici. Nemmeno l’IPCC riuscì a fornire un numero preciso.  Si parlò di “milioni di persone” potenziali migranti climatici. Poi fu il turno di quello che da molti è considerato il “padre” dei e delle migranti climatici, l’ambientalista britannico Norman Myers, che nel 1997 scrisse che alla metà degli anni ’90 nel mondo vi erano circa 25 milioni di rifugiat* climatici, e che sarebbero cresciut* fino ad arrivare a circa 200 milioni nel 2050.

L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni  ha proposto  questa definizione:

I e le migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, per motivi imperativi di cambiamenti improvvisi o progressivi per l’ambiente che influenzano negativamente la loro vita o le condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali o scelgono di farlo, in maniera temporanea o definitiva, e che si spostano sia all’interno del loro paese sia uscendo dai confini del proprio paese. Tale definizione, però, ha riscosso poco successo, probabilmente a causa della sua genericità. L’IOM, allora, ha adottato una “definizione di lavoro” (working definition), che se possibile allarga ancora maggiormente i confini della definizione, includendo anche chi si inizia la migrazione per legittima paura del deterioramento delle condizioni ambientali in cui vive.

Le aree che saranno maggiormente colpite da siccità, inondazioni e fenomeni climatici estremi a causa del cambiamento climatico Avere una definizione riconosciuta non è un mero esercizio intellettuale. Quasi tutti gli studiosi del fenomeno concordano nel ritenere che i cambiamenti climatici sono un acceleratore (driver) del deterioramento delle condizioni socio-economiche che spingono una persona a lasciare il posto in cui vive. In altre parole, laddove allagamenti, siccità ed eventi atmosferici estremi (le tre principali cause delle migrazioni dovute al cambiamento climatico) colpiscono territori già provati da povertà o violenza, fanno da acceleratori ai movimenti di persone. Entra quindi in gioco una distinzione che è fondamentale (anche se sulla sua eticità c’è un ampio dibattito): i e le  migranti del clima sono da considerarsi una categoria particolare di migranti per ragioni economiche o da considerarsi rifugiat* al pari di coloro che sfuggono dalle guerre? La distinzione è necessaria perché sempre più paesi occidentali stanno adottando questa discriminante per accogliere o respingere i richiedenti asilo (i rifugiati sì, come siriani, iracheni o afghani, i migranti economici no, come chi proviene da alcune zone del Maghreb o dell’Africa sub-sahariana). Da un punto di vista legale, c’è stato un solo caso di un richiedente asilo che lo ha fatto esplicitamente per ragioni “climatiche”.

Nel 2015, Ioane Teitiota, 39 anni, di Kiribati (uno stato insulare del Pacifico meridionale) ha perso la sua battaglia come “migrante climatico” dopo aver esperito tutte i ricorsi possibili in Nuova Zelanda. La sua storia è esemplare, poiché gli stati insulari sono universalmente riconosciuti come quelli che già oggi stanno sperimentando gli effetti peggiori del cambiamento climatico. Teitiota era arrivato nel 2007 in Nuova Zelanda, dove aveva anche costruito assieme alla moglie e ai 3 figli (nati in Nuova Zelanda) una famiglia. A causa di una piccola infrazione, nel 2011, era stato segnalato per aver superato il periodo di permanenza massimo consentito. Teitiota, allora, aveva fatto appello alle autorità per ottenere lo status di “rifugiato”, sottolineando che se lui e la famiglia fossero stati rimandati a Kiribati i figli, a causa del cambiamento climatico, avrebbero potuto essere in grave pericolo di vita. Il sistema giudiziario neozelandese, però, gli ha quest’anno rifiutato tale status, poiché un rifugiato si caratterizza anche per essere perseguitato nel proprio paese. I giudici, pur riconoscendo che la situazione ambientale a Kiribati si sta rapidamente e inesorabilmente deteriorando, non potevano ritenere che il cambiamento climatico potesse “perseguitare” Teitiota.

Il 44% della comunità umana globale vive entro i 150 km dalla costa, ovvero nelle aree geografiche che sono e saranno sempre di più colpite da inondazioni o fenomeni climatici estremi.

In altre parole, già oggi 3 miliardi di persone vivono in ambienti le cui condizioni climatico-ambientali in modo estremo cambieranno nel medio-lungo periodo.

Definire quindi cosa significa essere un migrante climatico è una priorità, perché significa individuare in maniera più precisa le aree altamente a rischio e dunque meccanismi di adattamento o di spostamento controllato della popolazione

Profugh* Ambientali –  Cambiamento climatico –  Migrazioni forzate

Negli  ultimi anni, si è osservato che, il sistema climatico è soggetto a mutamenti di grande rilievo. Per mutamenti climatici si intendono tutte le variazioni del clima del Pianeta sia a livello locale che  globale.

La comunità scientifica ha evidenziato che i cambiamenti climatici avvenuti negli  ultimi 150 sul nostro pianeta sono principalmente di origine antropica, ovvero derivanti dall’azione  dell’uomo.

Il quarto rapporto  dell’ Intergovernmental Panel on Climate Change  , affermava che le attuali concentrazioni di gas clima-alteranti nell’atmosfera stanno aumentando a un  ritmo senza precedenti e che la maggior parte degli aumenti nella media delle temperature globali  è molto probabilmente dovuta all’aumento osservato della concentrazione di gas serra causato  dall’attività umana.

I climatologi di tutto il mondo  sono ormai d’accordo nel dire che  è stata l’attività umana ad aver  influito sui i cambiamenti climatici che a loro volta sono la causa  dell’aumento dei disastri naturali  avvenuti in tutto il Pianeta negli  ultimi anni.

Le previsioni per il futuro sono alquanto allarmistiche. Secondo lo scienziato Mayer,  entro il 2050 si  raggiungeranno i 200/250 milioni di rifugiat* ambientali e secondo il Programma delle Nazioni  Unite sull’ambiente (UNEP) nel 2060 in Africa ci saranno circa 50milioni di profugh* climatici. Ancora  più pessimiste, le stime del Christian Aid che prevede circa 1miliardo di sfollati ambientali nel 2050.

Il XXI secolo potrebbe essere definito come il “Secolo dei e delle rifugiat* ambientali”, nonostante il termine  non sia ancora riconosciuto dalle leggi internazionali. È importante che le istituzioni, e i cittadini di tutto il mondo comprendano l’interdipendenza che  lega le comunità umane e il loro ambiente di vita, ma anche le comunità umane tra loro.

Una  maggiore consapevolezza rispetto a queste connessioni può portare ad evidenziare le nostre responsabilità rispetto alle altre comunità che abitano la nostra Terra. Preconcetti e disinformazione  alimentano un clima di tensione, se non di aperto razzismo, nei confronti dei migranti che arrivano  nel nostro Paese alla ricerca di migliori condizioni di vita, spesso costretti a lasciare le proprie case  a causa di fenomeni ambientali (siccità, alluvioni, perdita di fertilità dei terreni, desertificazione) che  hanno nelle attività antropiche la loro causa.

Conoscere queste cause e riconoscere la nostra responsabilità nel determinarle dovrebbe spingere tutti a sviluppare un maggior senso di accoglienza, comprensione e sostegno nei confronti dei rifugiati ambientali. Nel contempo, è importante  trasmettere il messaggio che un cambiamento verso la sostenibilità è possibile, che possiamo e  dobbiamo agire localmente, a partire da noi stessi e dalle nostre abitudini, per ottenere una trasformazione globale.

E’ importante che gli stati e le organizzazioni  internazionali agiscano più velocemente per sviluppare piani di prevenzione, adattamento e mitigazione dei disastri naturali.  Il fenomeno migrazione ambientale è un fenomeno che ci riguarda da vicino e del qual dobbiamo prenderci la responsabilità per tutelare il futuro del nostro Paese  e dell’intero Pianeta.

Il rapporto dell’ Internal Displacement Monitoring Centre  pubblicato nel maggio 2013 afferma  che nel 2012 sono state 32,4 milioni nel mondo le persone costrette ad abbandonare la loro  casa in conseguenza di disastri naturali. Al di là delle disquisizioni su chi sono i e le  “profugh* ambientali”, “rifugiat* ambientali”, “migranti ambientali”, “persone forzate ad emigrare”, “eco profugh*” e su quale sia il driver principale a guidarl* nella  scelta di migrare, è fondamentale parlare del problema per far si che  questo problema venga inserito nelle agende politiche.