Gli incontri di scambio interreligioso tra appartenenti alle moschee e a movimenti o chiese locali cattolici, si configurano proprio come ricerca di punti dottrinali comuni alle “genti del Libro”, glissando volentieri su tutto ciò che potrebbe creare materia di conflitto come la divisione dei ruoli tra maschi e femminine, con connotazioni evidenti di sottomissione femminile.Prendiamo la Destra e prendiamo la Sinistra. Prendiamo la Lega Nord e prendiamo Rifondazione Comunista. Scrive il sociologo Stefano Allievi nel suo ultimo saggio {La guerra delle moschee } (ed.Marsilio,2010) che l’atteggiamento fortemente anti islamico della Lega di Bossi, produce un atteggiamento di principio favorevole alle moschee da parte di Rifondazione Comunista e di altri partiti di sinistra, che di solito si caratterizzano per la forte polemica anti-cattolica in materia di diritti religiosi.
_ E’ proprio così e lo si nota costantemente quando si tratta delle donne per il velo, per i matrimoni forzati ,per la separazione di genere nelle moschee,ecc.

Mentre i partiti di sinistra o i vagamente posizionati da quella parte prendono posizione contro il papa tedesco quando ribadisce il rifiuto dell’ordinazione sacerdotale delle donne, argomentano in favore del velo. Non mi riferisco alla sua proibizione come è avvenuto in Francia nei luoghi pubblici,ma al suo significato nell’ambito religioso del puro e dell’impuro, del pudore (quindi) e quel che segue rispetto all’uso sociale del corpo delle donne.

Insomma, la Lega e la Destra in genere attaccano la presenza islamica in Italia in nome di maggiori diritti da parte degli autoctoni (da cui lo slogan:”padroni in casa nostra”), mentre la Sinistra si appella genericamente al rispetto dei diritti universali, in particolare per le minoranze in nome del multiculturalismo. Come se le culture fossero dei monoliti immodificabili.

Le conseguenze si possono notare nei comportamenti anche istituzionali, dove la buona volontà di affrontare la questione dei migranti, in particolare di quelli di religione o cultura musulmana, induce a iniziative e comportamenti a-conflittuali.

Gli incontri di scambio interreligioso tra appartenenti alle moschee e a movimenti o chiese locali cattolici, si configurano proprio come ricerca di punti dottrinali comuni alle “genti del Libro”, glissando volentieri su tutto ciò che potrebbe creare materia di conflitto come la divisione dei ruoli tra maschi e femminine, con connotazioni evidenti di sottomissione femminile.

Anche nelle scuole quando insegnanti e dirigenti delegano a qualche collega l’accoglienza degli studenti nati o cresciuti in Italia, si evitano possibili conflittualità.
_ Se ci sono ragazzine che diventate puberi ritornano a scuola con il velo e sono eventualmente oggetto di derisione, al massimo gli insegnanti invitano al rispetto delle differenze.

Queste sono invece delle occasioni preziose per aprirsi al conflitto guidato. Scrive Allievi: “Spesso è solo attraverso il conflitto che le posizioni possono modificarsi e trovare i canali per evolvere: ignorarlo o sottovalutarlo non è né utile né conveniente, perché non farebbe altro che posporsi nel tempo, con il rischio di accentuarne il contenuto distruttivo anziché quello evolutivo.”.

Nella costruzione di una moschea la previsione di una zona separata per le donne, può scatenare delle reazioni scandalizzate come è accaduto lo scorso anno a Ravenna.
_ Ma la difesa da parte delle donne musulmane che hanno portato come esempio di un eguale tradizione cristiana quelle delle nelle bizantine (450/500 d.c.) supportate dalla Sinistra,non porta da nessuna parte. Sarebbe stato meglio proporre un dibattito in modo da mettere in campo ,tra l’altro, il ruolo delle donne come marcatori d’identità collettiva spesso in senso difensivo perle comunità di immigrati.

Allievi prospetta il conflitto come una necessità sociale, “una delle modalità che la società (che è inerentemente conflittuale) trova per far emergere e in qualche modo elaborare e risolvere, eventualmente a spese dell’uno o dell’altro contendente, dell’una o dell’altra opinione, le diversità intrinseche che la attraversano.”.

Sarebbe auspicabile addirittura “cercare di riprodurre i conflitti, per così dire in ‘laboratorio’ attraverso metodiche di discussioni tra attori sociali….”.

Solitamente invece –vedi nelle scuole o in altre sedi- ci si limita alla narrazione e all’ascolto della narrazione da parte degli attori e delle attrici sociali . D’altronde gli insegnanti preposti al lavoro con le classi dove si trovano le seconde generazioni immigrate, non ricevono né una formazione culturale specifica, né possono contare su una elaborazione comune del collegio docenti.

Ciò accade anche in altre istituzioni come i consultori dove gli operatori affrontano situazioni nuove, di difficile decodifica senza una formazione specifica professionale e culturale. Oppure professionale ma non culturale in senso sociale, antropologico e persino politico generale.

Gli operatori come mediare di fronte, per esempio, a situazioni dove il marito decide per la moglie se lei deve abortire; o quando a rispondere alle domande per un’anamnesi della donna è l’uomo.
_ Ma sono sono in genere all’oscuro del retroterra che caratterizza le modalità comportamentali dei singoli- e del gruppo di appartenenza- e non ne conoscono i contorni, le dinamiche e così via.

Tutto ciò è il frutto di una tradizione culturale nostrana che ritiene le professioni dell’ambito delle relazioni d’aiuto ascrivibili stilisticamente al materno; d’accordo sulla preparazione professionale, ma soprattutto bisogna dimostrare un atteggiamento oblativo accompagnato dalla pseudo neutralità.

Il materno oblativo della cultura cattolica connota ogni mentale implicito evitamento delle situazioni conflittuali; deve sempre prevalere il sentimento del vogliamoci bene, come in famiglia.