Secondo un nuovo rapporto di Save the Children, l’Afghanistan non è più il luogo peggiore al mondo dove essere madre. La notizia mi colpisce. Se lo afferma una ONG con una reputazione così consolidata, evidentemente i progressi sono reali. E’ una buona notizia ma …Penso alle donne del Niger a cui tocca portare questo nuovo fardello.
Ancor prima che uscisse questo rapporto, abbiamo discusso a lungo della maternità nel mio piccolo ufficio di Kabul.

Le mie colleghe afghane non fanno che raccontarmi di quanto importanti siano le madri nella loro cultura, di quanto siano rispettate e amate. Fanno riferimento alla religione, a frammenti di vita quotidiana, ricordano le preghiere di protezione dette ad alta voce, o parlano con comprensione delle punizioni ricevute. Sono assolutamente consapevoli dei tanti sacrifici e delle difficoltà affrontati per loro dalle madri.

“Mia mamma è molto vecchia”, mi dice una collega. Capisco che ha 65 anni, la stessa età di mia madre che, se scoprisse che parlo di lei in questi termini, si arrabbierebbe non poco. Ma se sapesse che qui la vita media di una donna non raggiunge i cinquant’anni, allora anche lei sarebbe d’accordo che a 65 anni si è vecchie.

Da quando sono in Afghanistan – nove mesi appena – già due colleghe afghane hanno perso il bambino durante la gravidanza. Considero sotto un’altra luce le statistiche sulla mortalità materna in Afghanistan. Non si tratta più di numeri ma di volti, aperti e amichevoli, con cui condivido l’ufficio ogni giorno.

Le mie colleghe sono tra le giovani afghane che guadagnano meglio, sono più istruite e, a differenza di molte altre, hanno accesso alle migliori cure mediche che offre la capitale (o il vicino Pakistan). Eppure anche loro rischiano la vita per diventare madri. La condizione delle donne contadine è ancora più drammatica. Se si analizzano le statistiche, sembra non ci sia donna in Afghanistan che non abbia perso almeno un bambino nel corso della gravidanza.

L’altra mattina sono andata in visita ad un centro di formazione, alla periferia di Kabul. Ho incontrato un gruppo di donne che stavano imparando a leggere e a scrivere. Imparavano anche a cucire palloni da calcio, un’attività, richiesta sul mercato, che può aiutarle a guadagnare un po’ di denaro nel futuro. Una di queste donne era stata data in sposa all’età di dieci anni. Suo marito non voleva che la loro figlia andasse a scuola ma lei è stata irremovibile e, alla fine, ha avuto la meglio.

Non c’è la minima traccia di orgoglio nella sua voce quando mi racconta questa storia che rappresenta, in realtà, un’enorme vittoria. Si avverte solo una grande stanchezza. Ed è facile capire come, in una situazione simile, le razioni alimentari da portare a casa, fornite dal WFP e date alle studentesse, possano essere molto importanti. Una lattina di olio da cucina fortificato, data ogni mese, mi sembrava un incentivo troppo piccolo da spingere le famiglie a mandare le proprie figlie a scuola, ma se è questo ciò che serve per convincere un padre riluttante, allora mi devo ricredere.

Uno degli indicatori presi in considerazione da Save the Children è il numero di ragazze che frequenta, ufficialmente, la scuola. Nel 2001 non ve ne era nessuna. Ora sono 2,5 milioni. E’, infatti, utile ricordare che il punto di partenza era talmente basso da apparire quasi incredibile. Si sono fatti molti progressi, in Afghanistan, ma dobbiamo fare in modo di mantenere questo ritmo, soprattutto ora che i paesi donatori si trovano di fronte a scelte economiche difficili.

Le donne afghane non devono essere lasciate sole nuovamente!