Quanto il fatto che la formazione religiosa comporti inevitabilmente lo scontro con “il genere” del nome di Dio contribuisce all’ignoranza sulla questione dei generi e alla rassegnazione del pensare che “rosa e azzurro” sono sempre stati così?Un convegno organizzato nel 2012 dall’Ufficio Scuola della diocesi di Parma – nell’ambito di una serie di incontri su “la fede dei bambini da 9 mesi a 8 anni” – aveva un bel titolo “{Ma tu la pipì come la fai?}”. Rita Torti ne ha tratto ispirazione per una verifica sull’origine dei valori che, per come vengono trasmessi, diventano stereotipi a conferma dei ruoli tradizionali, sicuramente inventati, della donna e dell’uomo.

Quando una bimba di 3 anni è sicura che Dio “gioca con noi”, oppure una di 5 dipinge due grandi farfalle e dice che “Dio sta volando in cielo con sua moglie” e ancora un’altra, suppongo di poco più grande, immagina che “sia un cerbiatto dolce, gentile, che aiuta sempre tutti”, sembra che possa esistere un’immaginazione ingenua spontanea, ancora {{estranea alle raffigurazioni socialmente definite}}. Per esempio, molti dei maschietti dipendono già da un immaginario condizionato e vedono Dio come “un re”, “alto e muscoloso”, “potente”, “forzuto e che dà le lire ai poveri”, “un supereroe”.

Dunque, siamo davvero alla {{cinghia di trasmissione del patriarcato}}? Una maestra sottolinea che i maschi “amano giocare con le macchinine, le spade, il pallone e ogni attività ludica che esibisca la loro forza… i ruoli generalmente sono quelli del vincente, di chi comanda e decide anche per gli altri”. E’ esperienza comune che, almeno da quando le bimbe in jeans non hanno più le vestine con pizzi e velluti che non vanno sgualciti, anche le femmine non solo strillano e pestano i piedi, ma sono forti nella corsa e, se aggredite, menano. Tuttavia tendenzialmente il carattere dell’affettività, della fragilità apparente e, soprattutto il disinteresse per i primati si riscontrano nelle bambine e aprono qualche{{ finestra di vulnerabilità }} destinata ad aprirsi nell’adolescenza. La scuola e la famiglia non riescono ad esaurire le nuove esigenze educative: basta pensare quanto sarebbe importante la presenza di insegnanti maschi fin dall’asilo – dove la maestra è un’altra mamma – per dare più senso alla dignità dei due generi.

Ma{{ lo “specchio”}} è rappresentato dalle riviste specializzate e dai libri per l’ora di religione e dai “quaderni operativi” per gli insegnanti che li accompagnano. A parte gli stereotipi sulle attività di lavoro e familiari ormai meno arcaiche di un tempo, la storia ebraica soffre{{ il deficit delle madri}}. Abramo è il padre per eccellenza, ma i nomi maschili non hanno poi altrettanto storiche corrispondenze femminili: c’è Sara, ma non nella stessa proporzione Rebecca, Rachele, Lia, figurarsi Agar. Si menziona Mosè, ma non Sifra e Pua, che lo salvarono neonato, o la sorella Myriam. Idem per il Nuovo Testamento: apostoli e discepoli sembrano solo uomini; quando non prevale l’anonimato, {{le donne non hanno identità di discepole}}; i bambini che circondano Gesù non sono mai raffigurati, nemmeno nell’immaginario individuale, come anche bambine; Gesù scende agli inferi e riporta a Dio l’umanità nella figura di Adamo senza Eva.

Si può menzionare la “complementarietà” di maschile e femminile, ma {{solo un genere diventa marginale}}: e l’invisibilità della donna ne autorizza l’irrilevanza, mentre termini come sessualità, famiglia, lavoro finiscono per contenere implicitamente la violenza oscura e terribile del femmicidio (quello atroce della moglie del Levita del libro dei Giudici) e della pedofilia. Anche se il genere a cui il Risorto consegna il mandato dell’annuncio è femminile.

{{Rita Torti}}, {Mamma, perché Dio è maschio? Educazione e differenza di genere}, Effatà editrice, roma 2013