La fenomenologia degli attacchi contro le F. Nove riveste interesse non tanto per il fatto di rendere palese l’esistenza di un conflitto all’interno di una stessa generazione, ma soprattutto perché a muovere quelle critiche non è stato il gruppo promotore nel suo insieme, ma una sua imprevista scissione in tre gruppi separati e distinti.Le critiche rivolte alle Femministe Nove per aver occupato a sorpresa il palco di Paestum con la loro performance “Eccitazione permanente”, sono giunte da tre fonti diverse così tripartite:
– La prima è stata sferrata dal trio Melloni-Durigon-Capuzzo, di Femminile plurale;

– la seconda, formalmente meno virulenta, dal trio Tarantino-Dini-Verzini;

– la terza ha chiuso infine in bellezza con il duetto Gandini-Colombo che in un’ edulcorata mescolanza di elogi e critiche scientemente dosate in modo tale da neutralizzare le seconde, è risultato, fra i tre, il concentrato di ipocrisia femminile meglio riuscito.

Ci vuole arte – si fa per dire – anche per questo.

Ma non c’è bisogno di scomodare l’arte per individuare le Tre rispettive Matrici (Lud, Area Diotima e dintorni (?), Libreria) di cui questo trio è – o si considera, a ragione o torto – legittimo erede naturale.

Sono dunque Tre – identiche nella sostanza e differenti solo nella forma – le modalità di presa di distanza dalle F. Nove espresse dal gruppo di donne che pure si erano presentate unite sul palco di Paestum e a cui è stata affidata dalle femministe di altra generazione l’organizzazione e la gestione del Convegno 2013.

Un “affidamento”, un “passaggio del testimone” che se destava qualche perplessità sin dal primo documento programmatico stilato dalle destinatarie del passaggio (per via di alcuni segnali sinistri già allora percepibili e da me segnalati), sta rivelando ora i suoi effetti postumi all’interno di quel che resta di un femminismo nostrano sempre più impantanato dentro logiche politiche maschie abituate a sguazzare fra “partiti” e “correnti”.

La fenomenologia degli attacchi contro le F. Nove – avanzati dai tre gruppi sopra menzionati – riveste interesse non tanto per il fatto di rendere palese l’esistenza di un conflitto all’interno di una stessa generazione, ma soprattutto perché a muovere quelle critiche non è stato il gruppo promotore nel suo insieme, ma una sua imprevista scissione in tre gruppi separati e distinti.

Come spiegare le ragioni di questa sseparazione, di questo desiderio di affermazione e di differenziazione all’interno del medesimo gruppo promotore dal momento che nulla differenziava, nella sostanza, quelle critiche?

Non mancano, forse, considerando l’evoluzione e la conclusione degli eventi, dei ragionevoli motivi per ipotizzare che questa prima differenziazione sia stata del tutto funzionale a un secondo distinguo – più importante e politicamente finalizzato a istituire all’interno del gruppo promotore, il primato egemonico di un gruppo – di cui il primo distinguo sarebbe stato condizione.

Secondo questa ipotesi, il desiderio di egemonia, sarebbe stato perseguito dal trio Tarantino-Dini-Verzini che, distanziandosi e differenziandosi dagli altri due gruppi, diventerà, di fatto, artefice e promotore unico e indiscusso della convocazione del Convegno di Bologna del 14 dicembre.

All’origine di queste scissioni ci sarebbe dunque stato un desiderio egemonico successivamente concretizzatosi nell’organizzazione del Convegno con i seguenti obiettivi:

a) conquistare un primato simbolico affermando una posizione di supremazia gerarchica e valoriale all’interno della nuova generazione;

b) escludere dalla partecipazione al Convegno quelle “Madri” che avevano affidato alle rispettive “figlie” la gestione di Paestum 2013.

Inutile aggiungere che il successivo tentativo di rettifica di tale esclusione da parte delle responsabili, resta, per futilità argomentativa, poco credibile. Lo stesso dicasi per le più recenti spiegazioni in merito alla stessa che non fanno che rendere la difesa dell’operato sempre più imbarazzante e sempre meno difendibile.

Come valutare questo gesto? Come non riconoscere nella lotta delle figlie per il possesso dell’eredità e nell’esclusione delle “Madri”, la presenza di un desiderio di morte nei riguardi delle “Grandi Madri” del femminismo italiano?

Non gira forse nel blog di Paestum (“Confliggere danzando”) quell’ aria di “festa”, di “trionfo dell’io” che segue, secondo Freud, l’elaborazione di un lutto?

E, sempre a proposito di tentativi di eliminazione, che dire di un Convegno la cui data di convocazione (14 Dicembre) è stata fatta coincidere con la data e il luogo di un incontro comunicato, per ben due volte e con largo anticipo sui tempi, da una “Donna di troppo” ?

Sono più d’una – madri o non madri -, così pare, le “donne di troppo”.
E come non ricordare allora il mito del parricidio di Totem e tabù ?

Nulla di male – direbbero Lonzi e Putino che avevano capito i rischi insisti nel maternage – se non fosse che il destino di queste figlie, figlie di cotante madri da cui hanno ereditato un’idea di “differenza” oppositiva ed escludente, segnata dal culto della “voglia di vincere”, dal bisogno di protagonismo, di autorità e di sovranità, è già tristemente segnato così com’è segnato il destino di un femminismo senza futuro.

C’è chi ha visto nell’esclusione delle “grandi Madri” da parte delle organizzatrici dell’incontro a Bologna, un suicidio delle giovani piuttosto che un matricidio. A me pare, invece, che il suicidio riguardi quelle “Madri” che hanno dato l’imprimatur di un’investitura a delle figlie non all’altezza per riceverla.

Ma potrebbero forse essere all’altezza di alcunché, queste figlie, dopo aver assorbito, interiorizzato ed ereditato, attraverso il latte materno, un modo di stare al mondo – e di relazionarsi alle altre donne – le cui modalità e finalità sono la copia rovesciata e sgualcita dei ben noti paradigmi maschili di comportamento?

Il femminismo della Differenza in Italia – per come l’intendo – non è mai nato. La Differenza non ha nulla a che fare con l’opposizione escludente: essa si pone su un “altro piano”. (Lonzi). E solo prendendone atto e ripartendo da capo, c’è ancora speranza: “Tabula rasa”. Scriveva Lonzi:

{Il mito dell’uomo è di tutte, sia come partner che come cultura, e non c’è proposizione rivoluzionaria o atteggiamento di riserbo che tenga: il mito è lì, camuffato, nascosto, ibernato, ma pronto a uscire fuori alla prima occasione (…). Il femminismo non è altro che desiderio di un processo di liberazione attraverso il quale smaltire questo mito, NON NE E’ la RISOLUZIONE. Quella rappresenterebbe la fine del problema, quindi LA FINE DEL FEMMINISMO. } (maiuscolo mio)

La non avvenuta risoluzione del mito dell’uomo è dunque per il femminismo la sola garanzia di una vita ormai ridotta, pur di sopravvivere, a pura sopravvivenza.