Francesca De Masi

Francesca De Masi, sociologa di formazione, da vent’anni lavora con donne sopravvissute a storie di violenza domestica e tratta per sfruttamento sessuale e lavorativo. Dal 2007 è socia della cooperativa Be Free, da anni impegnata a contrastare tratta, violenze e discriminazioni, e ha lavorato in diversi sportelli antiviolenza di Roma. Dal 2010 è coordinatrice dello sportello per donne sopravvissute a tratta a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo che la cooperativa Be Free gestisce all’interno del centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria. Autrice di saggi e rapporti, tra cui ricordiamo Inter/rotte: storie di tratta, percorsi di resistenza. Attualmente coordina l’area antitratta della cooperativa Be free, e della casa di fuga che Be free gestisce nell’ambito del progetto Rete antitratta Lazio finanziato dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri. L’abbiamo intervistata.

Quando hai iniziato a lavorare con le migranti e da dove è nata questa spinta?

Ho iniziato a lavorare con le donne migranti nello stesso momento in cui ho iniziato a lavorare con le donne in generale: nel 1999, all’interno dei centri antiviolenza, dove vengono accolte donne in fuga dalla violenza maschile. La violenza contro le donne è un fenomeno trasversale, colpisce sia italiane che straniere, e questo mi ha permesso di coltivare uno sguardo in cui all’alterità – dell’essere migrante – si affiancava il  terreno comune dell’essere donne, in una cultura che ci opprime in quanto donne, con la consapevolezza di quanto l’essere bianca e occidentale significhi comunque avere dei privilegi e gestire un potere. Poi dal 2005 mi sono occupata anche di tratta di donne a scopo di sfruttamento sessuale. La spinta è stata l’urgenza di contrastare la violenza maschile sulle donne, in qualunque forma.

In cosa consiste il tuo lavoro di tutti i giorni e come si svolge?

All’interno di Be free, cooperativa di donne nata nel 2007, mi occupo del coordinamento dell’area antitratta all’interno del progetto regionale “Rete antitratta Lazio”, per cui  svolgiamo diverse attività. Nello specifico, sono la coordinatrice della struttura protetta a indirizzo segreto in cui accogliamo giovani donne in fuga dallo sfruttamento sessuale e coordino le attività di sportello psico-sociolegale, volto all’emersione delle storie di  tratta e di sfruttamento sessuale e lavorativo: significa intervenire in presenza degli “indicatori” che fanno supporre che la donna che abbiamo davanti possa essere stata adescata nel proprio paese d’origine, trasferita attraverso diversi paesi, per poter essere poi sfruttata nella prostituzione una volta giunta in Italia, quando ancora la donna non ha potuto raccontare la propria storia di vita, per paura di ritorsioni, minacce, o per diffidenza nei confronti delle istituzioni coinvolte, o perché le stesse istituzioni tali indicatori non sono state in grado di coglierli, o non  hanno voluto. Quello che io e le altre cerchiamo di fare è di costruire un rapporto di fiducia, mettere ogni donna a proprio agio e spiegarle quali sono i suoi diritti e quale il percorso che possiamo proporle. Ovviamente è la donna stessa che decide per la propria vita, e non ci sostituiamo a lei in nessuna delle fasi: il nostro compito è quello di ascoltarla, senza pregiudizi, e  presentarle tutte le opzioni che ha di fronte, permettendole di orientarsi nell’ambito di leggi che anche per molte e molti di noi sono di difficile comprensione, e di  un contesto molto spesso ostile alla diversità.

Cosa significa per te lavorare in una prospettiva di genere? Esiste una metotologia femminista?

La metodologia femminista esiste ed è quella che libera tutte. Tuttavia, la mancata connessione nel nostro paese tra violenza e tratta ha dato vita ad alcune criticità anche a livello operativo. Se i centri antiviolenza fossero gestiti da associazioni non femministe, assistenziali, si griderebbe allo scandalo e ci sarebbe una levata di scudi per poter difendere invece la necessità di percorsi non sovradeterminati, frutto della relazione solidale tra donne. Come affermato nel piano femminista della rete Non una di meno, la metodologia dell’accoglienza propria dei centri antiviolenza deve essere indirizzata all’autonomia e mai all’assistenza, ogni percorso di fuoriuscita dalla violenza si avvia su iniziativa e scelta della donna coinvolta ed è finalizzato alla rielaborazione degli eventi subiti e all’empowerment. Così, a mio avviso, si dovrebbe lavorare anche con le donne sopravvissute alla tratta, un fenomeno strettamente correlato al genere, non solo dal punto di vista quantitativo (più del 90% delle vittime sono donne e bambine), ma anche per le cause che lo alimentano. Invece, nel contrasto alla tratta, oltre che a una generica necessità dell’ottica di genere quale strumento metodologico per affrontare il fenomeno – tra l’altro espressa dal piano antitratta solo nel 2016, quindi molto tardi – non c’è traccia del grande portato dell’esperienza storica del movimento delle donne. Con Be Free cerchiamo di colmare questo vuoto e tenere insieme le due cose, questo significa lavorare in un’ottica di genere.

Le migrazioni umane sono sempre esistite, secondo te qual è la particolarità del momento che stiamo vivendo, esiste un’emergenza migranti? E cosa manca all’Europa per una gestione sostenibile dei flussi migratori?

L’unica emergenza è lo sfilacciamento dei diritti a cui tutti e tutte noi, native e migranti, stiamo assistendo negli ultimi anni. L’emergenza migranti non è altro che un’arma di distrazione di massa costruita a tavolino per far sì che le donne e gli uomini di questo paese chiudano gli occhi rispetto ai veri problemi che logorano la nostra quotidianità: la precarietà, l’impoverimento di una fetta sempre più consistente della popolazione, la violenza strutturale che colpisce le donne per il solo fatto di essere nate donne, e  che vede uccisa dal proprio partner una donna ogni 60 ore, lo sfruttamento e le morti sul lavoro, la mancanza di welfare e di servizi, sono questi (e molti altri) i reali problemi contro i quali ci dovremmo ribellare, e che rendono le nostre vite un inferno. Le persone migranti non sono altro che il banco di prova di nuove politiche repressive, per una sperimentazione che prima o poi colpirà anche noi, o ci sta già colpendo. Si pensi ad esempio alle parole d’ordine della sicurezza e del decoro, e a come vengono declinate di volta in volta per colpire tutto ciò che rappresenta “diversità”, non solo quella migrante.

Dai dati sappiamo che l’Italia è tra gli ultimi paesi in Europa per incidenza del numero di rifugiati sul totale della popolazione. Come va letto secondo te l’attacco in corso alle Ong che lavorano nel settore dell’accoglienza sulle coste e dell’assistenza sul territorio?

Questo clima mi fa rabbia e paura. Se penso a come la migrazione sia sempre stata gestita dai governi in chiave emergenziale, senza una progettualità a lungo termine e negando la libertà di movimento come diritto fondamentale per tutti e tutte, a prescindere dal passaporto, non posso che arrivare alla conclusione che questo clima è quello che hanno voluto costruire in anni di politiche migratorie di chiusura e di criminalizzazione: quello a cui stiamo assistendo non è casuale né improvviso.

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