Annemarie Jacir, regista

Una novità importante quest’anno al Festival di Locarno, è stata la presenza tra i diciotto film partecipanti al concorso internazionale di una pellicola palestinese, Wajib ( “Dovere”) della regista Annemarie Jacir; una scelta coraggiosa che è stata pienamente ripagata dal successo di pubblico e di critica ottenuto dal film.

La trama è molto semplice: a Nazareth nelle settimane che precedono il Natale sta per celebrarsi il matrimonio di una ragazza e, come usanza, i familiari devono consegnare a mano, di porta in porta, l’invito per il matrimonio. Il compito spetta al padre e al figlio, architetto appositamente rientrato in Palestina da Roma dove vive dopo aver lasciato il paese natale, anche a causa dei problemi relativi alla sua frequentazione di gruppi politici. La narrazione si sviluppa attorno al rapporto tra un padre, professore in pensione, consapevole e forse rassegnato alle rigide regole e ai rapporti di forza che governano la quotidianità di un territorio occupato e un giovane, fidanzato con la figlia di un dirigente dell’OLP, animato da sentimenti di ribellione e di resistenza; il tutto attraverso un susseguirsi di entrate e uscite dalla vita di ogni giorno delle persone alle quali va consegnato l’invito per il matrimonio.

Il punto di osservazione dell’attuale situazione in Palestina continua a modificarsi in un’alternanza tra lo sguardo del padre e del figlio, di chi osserva da dentro e chi da fuori e in quest’alternanza irrompono aspetti quotidiani della vita di un paese occupato che rendono sempre più dialettico e complesso il rapporto tra padre e figlio.  I due attori Mohammad e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella vita reale, interpretano con grande talento i loro personaggi fondendo la capacità professionale con l’intimità e la complicità che li lega nella vita.  La madre è assente, trasferitasi all’estero per seguire il nuovo marito, che ora assiste nelle sue ultime ore di vita; è un’assenza che offre l’opportunità di alzare lo sguardo, di uscire da una dinamica che rischia di restare chiusa in se stessa, ma è anche una mancanza che diventa metafora di una realtà amputata, impossibilitata a raggiungere la propria completezza.

L’occupazione israeliana resta sullo sfondo. Non è necessario descriverla nei suoi particolari: la si percepisce ogni momento nella gestione del quotidiano e nell’impotenza che, ciascuno a modo suo, esprimono ambedue i protagonisti.

Erano molti, tra i commentatori internazionali ad aspettarsi un premio per Wajib  e la sua regista, ma forse era troppo chiedere alla giuria di trovare il coraggio per spingersi fino a quel punto.

Una novità importante quest’anno è stata la presenza tra i diciotto film partecipanti al concorso internazionale di una pellicola palestinese, Wajib ( “Dovere”) della regista Annemarie Jacir; una scelta coraggiosa che è stata pienamente ripagata dal successo di pubblico e di critica ottenuto dal film.

La trama è molto semplice: a Nazareth nelle settimane che precedono il Natale sta per celebrarsi il matrimonio di una ragazza e, come usanza, i familiari devono consegnare a mano, di porta in porta, l’invito per il matrimonio. Il compito spetta al padre e al figlio, architetto appositamente rientrato in Palestina da Roma dove vive dopo aver lasciato il paese natale, anche a causa dei problemi relativi alla sua frequentazione di gruppi politici. La narrazione si sviluppa attorno al rapporto tra un padre, professore in pensione, consapevole e forse rassegnato alle rigide regole e ai rapporti di forza che governano la quotidianità di un territorio occupato e un giovane, fidanzato con la figlia di un dirigente dell’OLP, animato da sentimenti di ribellione e di resistenza; il tutto attraverso un susseguirsi di entrate e uscite dalla vita di ogni giorno delle persone alle quali va consegnato l’invito per il matrimonio.

Il punto di osservazione dell’attuale situazione in Palestina continua a modificarsi in un’alternanza tra lo sguardo del padre e del figlio, di chi osserva da dentro e chi da fuori e in quest’alternanza irrompono aspetti quotidiani della vita di un paese occupato che rendono sempre più dialettico e complesso il rapporto tra padre e figlio.  I due attori Mohammad e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella vita reale, interpretano con grande talento i loro personaggi fondendo la capacità professionale con l’intimità e la complicità che li lega nella vita.  La madre è assente, trasferitasi all’estero per seguire il nuovo marito, che ora assiste nelle sue ultime ore di vita; è un’assenza che offre l’opportunità di alzare lo sguardo, di uscire da una dinamica che rischia di restare chiusa in se stessa, ma è anche una mancanza che diventa metafora di una realtà amputata, impossibilitata a raggiungere la propria completezza.

L’occupazione israeliana resta sullo sfondo. Non è necessario descriverla nei suoi particolari: la si percepisce ogni momento nella gestione del quotidiano e nell’impotenza che, ciascuno a modo suo, esprimono ambedue i protagonisti.

Erano molti, tra i commentatori internazionali ad aspettarsi un premio per Wajib  e la sua regista, ma forse era troppo chiedere alla giuria di trovare il coraggio per spingersi fino a quel punto. Ad Annemarie Jacir è stato attribuito il PREMIO CINEMA 2017, un riconoscimento indipendente assegnato dall’ISPEC, l’Istituto di Storia e Filosofia del Pensiero Contemporaneo della Svizzera Italiana, con il seguente giudizio, da me pienamente condiviso: “Pregevole e importante, trent’anni dopo lo straordinario “Nozze in Galilea” di Michel Khleifi, un nuovo matrimonio a Nazareth, raccontato in “Dovere” di Annemarie Jacir, regista capace di unire grinta, talento e chiara volontà di difendere attraverso le sue opere le ragioni di un popolo oppresso dal sionismo, un’ideologia volta a disgregare in Palestina la secolare amicizia tra cristiani, ebrei e musulmani……. “Dovere” di Annemarie Jacir nel serrato dialogo tra padre e figlio capace di attraversare tutto il film, scandaglia con emozione, partecipazione e determinazione il presente, consapevole del passato e in cerca di un necessario futuro.“

…. ai curdi

Restando vicino a casa nostra e puntando l’attenzione verso il vicino Medio Oriente, due sono i filmati degni di nota presentati fuori concorso: Filles du feu (Fire’s Daughters) del regista, fotografo e antropologo Stephane Breton, racconta la vita delle donne combattenti curde siriane che con le armi in pugno contribuiscono a difendere il proprio popolo dalla tenaglia costituita dallo Stato Islamico, l’esercito turco e le truppe di Baschar AL-Assad. Breton segue per sette mesi la vita di queste donne e  l’aspetto che più colpisce non è tanto il susseguirsi degli eventi (il ritmo del film è molto lento) e nemmeno il quadro geopolitico (solo accennato in modo generico nei colloqui tra i protagonisti), ma le relazioni intercorrenti tra uomini e donne sotto le armi, relazioni difficilmente immaginabili da chi si limita a fare di tutte le popolazioni mediorientali un insieme unico, senza indagare la storia specifica di ogni popolo e di ogni stato.

Non c’è dubbio che il ruolo della donna nelle comunità curde sia sempre stato segnato da una grande autonomia, identificabile anche in alcune figure simbolo come Leyla Zana, già parlamentare e una delle leader dei curdi che vivono in Turchia.

… agli Emirati Arabi Uniti

D’impatto emotivo più forte e destinato a creare meno contraddizioni nell’establishment occidentale e quindi con maggiori probabilità di approdare sui nostri schermi The Poetess è un documentario dei filmmaker tedeschi Stefanie Brockhaus e Andreas Woff che racconta la storia di Hissa “Remia” Halil, poetessa saudita giunta agli onori della cronaca per aver partecipato ad un concorso di poesia tra poeti di vari paesi arabi che va settimanalmente in onda nella trasmissione Million’s Poet prodotta a Abu Dabi negli Emirati Arabi Uniti. Hissa ha criticato in diretta televisiva prima i comportamenti machisti degli uomini arabi e poi la validità delle fatwa, ovvero le leggi coraniche, in particolare quelle riguardanti i doveri della donna musulmana. Il documentario è di enorme interesse per diversi aspetti: per le denunce sollevate dalla protagonista, per lo spazio che queste trovano nella trasmissione televisiva e nei commenti giornalistici, per la scoperta dell’esistenza nel mondo arabo di talk show non molto differenti dai format a noi ben conosciuti e per l’emergere di un circo mediatico costituito da vip e dal jet set dei paesi arabi con comportamenti in netto contrasto non solo con la predicazione dei gruppi integralisti, ma anche con le formali regole e leggi dei rispettivi paesi.

l’Istituto di Storia e Filosofia del Pensiero Contemporaneo della Svizzera Italiana, con il seguente giudizio, da me pienamente condiviso: “Pregevole e importante, trent’anni dopo lo straordinario “Nozze in Galilea” di Michel Khleifi, un nuovo matrimonio a Nazareth, raccontato in “Dovere” di

capace di unire grinta, talento e chiara volontà di difendere attraverso le sue opere le ragioni di un popolo oppresso dal sionismo, un’ideologia volta a disgregare in Palestina la secolare amicizia tra cristiani, ebrei e musulmani……. “Dovere” di Annemarie Jacir nel serrato dialogo tra padre e figlio capace di attraversare tutto il film, scandaglia con emozione, partecipazione e determinazione il presente, consapevole del passato e in cerca di un necessario futuro.“