Nessuno che impari a pensare può tornare a obbedire, come faceva prima: non per spirito ribelle ma per l’abitudine, ormai acquisita, di esaminare ogni cosa” così scriveva Hannah Arendt in “Alcune questioni di filosofia morale”. 

Ecco.

Per fortuna – o meglio, grazie alle lotte delle donne e  ai percorsi di autoconsapevolezza di genere che hanno smantellato tanti “totem” cari al patriarcato e hanno ridefinito tanti modi di essere – i tempi delle yes ladies sono entrati in crisi, complice quel “principe azzurro” che è la cultura, poderosa garanzia di risveglio delle menti.

E dunque, ça va sans dire, le donne ormai “sveglie”  non amano i diktat, meno che mai quelli proposti artatamente come “spirito di servizio” (… ad usum delphini) : di fronte a questi diktat il “no” è legittimo, anzi sacrosanto; e al contrabbandato “spirito di servizio”, bisogna sostituire il …. servizio allo spirito: l’autodeterminazione, e dunque la tutela del proprio Io. 

Il titolo di questo pezzo, L’Io delle Donne, riecheggia ( si parva licet…) il titolo di un libro di Luisa Muraro, Il Dio delle Donne. Tra i due titoli c’è un legame, che è quello della sacralità: la sacralità di Dio e la sacralità dell’Io. Chi ha cultura filosofica sa bene quanto sia profondo, e per nulla banale – dunque per nulla autoreferenziale – il concetto di Io. E chi ha cultura di genere sa, altrettanto, quanto l’Io delle Donne sia stato sofferente, nei secoli; …. e c’è ancora chi  tenta di irreggimentare quell’io, con protervia, e, in alcuni casi, anche con una consistente dose di stupidità. Quell’Io deve essere difeso con le unghie.  L’ empowerment di genere muove esattamente da lì: dalla capacità di autodeterminazione che discende da una mente critica, capace di far evitare i pavimenti di pece.