L’immaginario nazionale imposto a viva forza
“Sovranità, confini, vulnerabilità”: le due filosofe femministe americane ospiti giovedì 27 di una giornata di studio all’università Roma Tre
Butler: Quelli che gli Usa uccidono non sono “veri esseri viventi”, sono minacce “per la vita” come noi la conosciamo{{ {Sovranità, confini, vulnerabilità}: questo titolo suggerisce un nesso, se non un isomorfismo, fra la vicenda dello Stato e quella del soggetto. Le due nozioni dello Stato sovrano e del soggetto sovrano nascono assieme nel paradigma del Politico moderno. E’ possibile oggi tracciare un parallelo fra la crisi della sovranità statuale e la crisi dell’individuo sovrano?}}

Penso sia possibile considerare certe forme della psicologia dell’io e della psicoanalisi kleiniana come capaci di registrare le tracce della sovranità politica presenti nella psiche. Che tipo di ego o di psiche è quello che ha cara la propria impermeabilità sopra ogni altra forma di connessione o interdipendenza? La mia sensazione è che il «confine» dell’io funzioni diversamente in presenza di determinate condizioni dello Stato nazione, specialmente quelle in cui si teme l’“invasione”, in cui viene dato un grande valore all’i“ntegrità interna”, in cui si rifiuta la dipendenza e in particolar modo l’interdipendenza globale.

{{Per quanto fosse rintracciabile già in precedenza, la questione della vulnerabilità umana viene in primo piano nel tuo lavoro dopo l’11 settembre, assieme alla questione del lutto come pratica pubblica e dell’interdipendenza come antidoto alla politica della vendetta. Com’è stato influenzato il tuo pensiero dagli eventi dell’11 settembre?}}

Mi era chiaro che in risposta all’11 settembre il governo Usa, insieme a un sistema massmediatico di bassa lega, ha cercato di creare un soggetto nazionale pervasivamente maschilista, che si definisse come impermeabile, invulnerabile, perennemente aggressivo, e che rifiutasse i suoi legami internazionali. La questione attiene al modo in cui il soggetto nazionale risponde all’improvvisa presa di coscienza della sua vulnerabilità. Era la prima volta che gli Stati uniti venivano attaccati all’interno dei loro confini, dopo l’episodio di Pearl Harbor durante la seconda guerra mondiale. Gli Stati uniti avrebbero potuto sfruttare questa opportunità per riconoscere la propria vulnerabilità, e anche per riconoscere che questa vulnerabilità è generalizzabile – cosa che avrebbe potenziato gli accordi internazionali e transnazionali miranti a ridurre al minimo il rischio di violenza. Ma la loro strategia è consistita invece nel rimuoverla.
_ Questa versione del soggetto nazionale (una sorta di immaginario della nazione imposto a viva forza) è stata creata regolando il modo in cui intendiamo la morte o reagiamo ad essa. La morte delle vittime del World Trade Center non è stata considerata solo un fatto gravissimo, ma è stata innalzata ad uno status di straordinarietà, di sacralità. D’altro canto ci è stato impedito – e ci viene impedito tuttora – di vedere i morti di guerra. Ciò significa che la regolazione del campo visivo in cui è possibile incontrare la morte resta cruciale per la guerra e per il nazionalismo su cui essa poggia. Certe vite sono degne di lutto, altre no, e questo serve a giustificare la violenza che infliggiamo e a rimuovere qualunque concezione della nostra precarietà. Quelli che gli Usa uccidono non sono dei “veri esseri viventi”, sono popolazioni che minacciano la “vita” così come noi la conosciamo. Questo è una pericolosa schisi che incide sulla cultura della guerra.

{{L’idea della vulnerabilità e dell’interdipendenza come base di una politica non violenta implica un rovesciamento del paradigma politico moderno basato sulla forza e sulla logica amico-nemico. In Critica della violenza etica definisci la vulnerabilità e l’interdipendenza in una prospettiva etica. Ma etica e politica, come sappiamo, per quanto siano connesse non coincidono. Sul fronte della politica istituzionale, dopo l’11 settembre la logica della forza e della violenza, della difesa della sovranità nazionale e della vendetta ha di nuovo prevalso. Può un’etica della vulnerabilità e dell’interdipendenza farsi strada in pratiche sociali e politiche capaci di disturbare questa sorta di coazione a ripetere del Politico? Nel femminismo italiano, ad esempio, concepiamo la relazione fra donne come una forma sociale e pratica politica che mette in atto l’interdipendenza, contro il paradigma dominante dell’autonomia e della sovranità.}}

Mi piace molto questa idea della relazione tra donne come forma sociale che mette in atto l’interdipendenza. La mia sensazione è che certi principi etici appaiano con evidenza ed entrino in gioco solo in virtù di situazioni politiche. Così per me non c’è etica al di fuori della pratica sociale e del terreno del potere. Mi sembra che qualunque decisione di mettere in atto la violenza, o di rifiutarla, abbia una dimensione etica, in quanto attiene alla condotta e al modo in cui giustifichiamo la relazione – qualunque relazione – che stabiliamo con la violenza. Ma non saremmo in situazioni di questo tipo se non fosse per l’esistenza dell’aggressione politica e, più specificamente, di forme sociali di aggressione. Il movimento di autodifesa femminista è al contempo una pratica etica e politica. Non sarebbe necessario, se non fosse per la violenza contro le donne. E tuttavia incarna principi etici in forme sociali.

{{Un tema cardinale del tuo lavoro, secondo me, è la tua interpretazione della dinamica del ricoscimento come processo che non conferma l’identità di chi vi è implicato, ma la destabilizza e la trasforma. Ma il riconoscimento dipende anche, tu sostieni, dalle norme e dallo Stato, che tendono viceversa a fissare, normalizzare e gerarchizzare le nostre identità. Se e fino a che punto affidare, o viceversa sottrarre, il riconoscimento collettivo alla legge, ai diritti e allo Stato, è una questione assai dibattuta nei movimenti politici, anche qui in Italia, dove si è ripresentata di recente a proposito delle convivenze e dei matrimoni gay. Tu che ne pensi?}}

A mio parere dobbiamo elaborare una nozione di “riconoscimento critico”, ossia una pratica che consiste nel cercare riconoscimento nei termini delle norme esistenti (ad esempio, ampliare le norme per l’uguaglianza e la giustizia), ma anche nell’interrogare e mettere in discussione la portata e il carattere di queste norme. Se ci limitiamo a cercare il riconoscimento, resteremo legati alle norme esistenti. Ma se ci sta a cuore chi non riesce a ottenere riconoscimento dalle norme esistenti, o dal loro ampliamento, dobbiamo elaborare nuove forme sociali, ed anche nuove norme. Questo vuol dire interrogare i limiti del riconoscibile e formulare una politica precisamente su questo punto.

{{Un altro tema importante del tuo lavoro, nella mia prospettiva, riguarda il cambiamento dell’ordine simbolico, questione capitale anche nel pensiero della differenza sessuale italiano. Personalmente leggo la tua teoria della performatività, in Scambi di genere e in Excitable Speech, come una ricerca di pratiche di risignificazione che possono appunto modificare l’ordine simbolico. Altrove però (La rivendicazione di Antigone, La disfatta del genere) sembri delineare un cambiamento dell’ordine simbolico (segnatamente della struttura dell’Edipo) che procede direttamente dal cambiamento sociale (segnatamente dalle nuove tipologie familiari post-nucleari). Che rapporto c’è secondo te fra ordine sociale e ordine simbolico e fra la trasformazione dell’uno e dell’altro, e quali pratiche pensi che possano innescare un circolo fra loro?}}

A mio modo di vedere, è un errore interpretare l’apparente intrattabilità di certi nuovi rapporti di parentela come il segno di un ordine simbolico che perdura immutato. Ciò che chiamiamo “simbolico” è quella struttura del rapporto di parentela che appare difficile, se non impossibile, da cambiare. Chi difende il simbolico come un ordine dato e immodificabile è molto spesso costretto a patologizzare i rapporti di parentela che non si conformano alla sua legge. Di conseguenza, devono decidere costantemente che cos’è “veramente femminile” o “veramente intelligibile”, producendo così un terreno di esclusione per una politica innovativa della sessualità e della parentela. Questa logica dimostra che c’è sempre un “fuori” dal simbolico: un terreno che è anche “vivibile,” pur essendo costantemente allestito come “invivibile”. Penso che sia possibile, ad esempio, pensare l’Edipo fuori dalla famiglia eterosessuale, ripensare la parentela stessa fuori dalle strutture familiari, e liberare la sessualità dal suo strangolamento nell’identità.

{{La psicoanalisi gioca un ruolo cruciale nel tuo pensiero politico. Per parte mia, anch’io penso che oggi sia impossible ripensare l’ontologia politica senza uno sguardo psicoanalitico. Tuttavia il rapporto fra il livello psichico, sociale e politico della nostra vita è complesso. Fino a che punto pensi che la psicoanalisi ci sia d’aiuto nel riformulare la teoria e soprattutto la pratica politica?}}

Penso che sia particolarmente importante, nella politica contemporanea, rintracciare le strategie di rimozione, considerare come il passato continui nel presente, anche come presente. Non so se possiamo riuscire a capire quello che succede in Medioriente senza un senso specificamente politico del trauma. E non so se possiamo riuscire a capire il razzismo, la misoginia, l’omofobia, la xenofobia senza considerare l’ansia e la paura che accompagnano le relazioni di prossimità con gli altri. Noi negoziamo costantemente i confini che ci separano dagli altri o che ci connettono con loro, e ciò dimostra come certi problemi psicoanalitici, concepiti socialmente, informino la politica contemporanea sull’immigrazione (che riguarda sempre il confine: chi può attraversarlo, e a quale prezzo per il sé?) e sulla guerra (chi può irrompere attraverso un confine, e a quale costo?). Non credo che estrapolare un modello individuale della psiche per pensare le relazioni politiche funzioni: la cosa che mi pare più promettente è considerare con quanta frequenza le relazioni politiche siano formulate in termini di ansia, paura, difesa, vendetta, aggressione, ma anche, e viceversa, di riparazione e relazionalità.

({Ha collaborato Marina Impallomeni})