Nel 2020 in Unione europea mancheranno 756 mila figure professionali altamente qualificate nel settore delle telecomunicazioni. Un altro milione di lavoratori e lavoratrici  mancheranno all’appello del settore sanitario tra dottori, infermieri, dentisti, ostetriche e farmacisti. Un deficit che non può essere colmato dai 12 milioni di disoccupat* di lungo termine presenti nella Ue perché per oltre il 50 per cento non hanno i titoli e le competenze per accedere a questi ruoli. Ecco i primi risultati de “L’Europa dei talenti: migrazioni qualificate dentro e fuori l’Unione europea”, ricerca realizzata dal Centro Studi e Ricerche Idos e l’Istituto di Studi Politici “San Pio V” che venerdì 15 marzo verrà presentata all’auditorium di via Rieti a Roma. Un dossier si focalizza sulle “migrazioni qualificate” da, per e dentro l’Unione europea. L’indagine stima che in un decennio la forza lavoro diminuirà di 17,5 milioni di unità nel continente, in larga misura in Italia, e che già oggi si riscontrano 3,8 milioni di posti vacanti a causa delle carenze in settori chiave come le scienze, la tecnologia, l’ingegneria e la sanità.

Secondo la Commissione Europea l’immigrazione altamente qualificata è un’opportunità che può assicurare fino a 6 miliardi di euro di vantaggio economico ogni anno, ma il mercato del lavoro comunitario stenta ad utilizzare a pieno le capacità degli immigrati già presenti. Poco e male funziona anche lo strumento della Carta blu Ue, un titolo che consente ai cittadini di paesi terzi e ai loro familiari di usufruire dello stesso trattamento riservato ai lavoratori autoctoni, in particolare per quanto riguarda le condizioni di lavoro, la sicurezza sociale e il riconoscimento dei titoli studio. La carta blu prevede procedure di ingresso privilegiate per chi soddisfa una serie di requisiti comuni tra gli Stati membri: un’offerta di lavoro vincolante (con uno stipendio il cui ammontare corrisponda ad almeno una volta e mezzo lo stipendio medio annuale lordo nello Stato membro interessato), un’assicurazione sanitaria e documenti che attestino il possesso delle qualifiche professionali nel caso di professioni regolamentate. Tra il 2012 e il 2017 ne sono state rilasciate poco più di 90mila e il basso numero di rinnovi mostra come i beneficiari abbiano deciso evidentemente di andarsene. Nel 2017 ha contato appena 24.305 rilasci, di cui 301 in Italia, e l’unico Paese dove lo strumento sembra funzionare è la Germania dove si sono concentrate l’84 per cento dei rilasci totali.

Oltre alle migrazioni da Paesi extra Ue ci sono quelle intracontinentali. All’inizio del 2017 sono 16,9 milioni i cittadini comunitari attivi in un altro Stato membro che si vanno a sommare ai 2 milioni di lavoratori e studenti frontalieri. 3,6 milioni sono lavoratori mediamente qualificati e quasi 3 milioni altamente qualificati, un numero quasi triplicato rispetto al 2004. Un terzo è inserito in settori altamente qualificati, come la sanità (11 per cento), le attività professionali, scientifiche e tecniche (12 per cento) e l’istruzione (10,6 per cento). Secondo il rapporto in Italia la situazione è ancora meno soddisfacente per il basso tasso di occupazione (10 punti percentuali e 3,8 milioni di occupati in meno rispetto alla media della Ue a 15). Le carenze riguardano comparti ad alta qualifica come sanità, istruzione e pubblica amministrazione. In particolare, dei 2.423 mila occupati stranieri rilevati dall’Istat nel 2017, quasi 2 su 3 (62,8 per cento) svolgono professioni non qualificate o operaie e solo 1 su 14 (7,2 per cento) fa lavori qualificati. Questi lavoratori risultano più spesso sovraistruiti e nel 35,5 per cento dei casi gli immigrati svolgono mansioni al di sotto del loro livello di formazione. Continuano tuttora a essere limitati gli spazi offerti ai lavoratori qualificati non comunitari: ne sono arrivati 5mila nel 2017. “L’Italia – commenta il professore Paolo De Nardis, presidente dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” – soffre l’assenza di una strategia in grado di attrarre lavoratori qualificati nei comparti strategici, dove i ridotti investimenti bloccano l’impiego sia di nuove leve italiane sia di quelle in arrivo dall’estero, facendo del paese un tipico caso di spreco di talenti, di cui fanno le spese i giovani, sia autoctoni sia immigrati”.

“Un paese che invecchia rapidamente e che continua a perdere competitività, con una economia in recessione  – gli fa eco Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche Idos – dovrebbe avere il coraggio di aprire i propri sistemi economici, produttivi e di ricerca ai giovani talenti, sia italiani sia stranieri, prima che essi optino per l’abbandono del paese. La dominante retorica della ‘chiusura’ non solo rivela la chiusura mentale di chi la alimenta, ma auto condanna il paese a un futuro sempre più asfittico e infecondo”. Un tema che infatti riguarda anche i e le giovani italian* altamente qualificat*: secondo l’Ocse l’Italia è l’ottavo paese del mondo per numero di emigrati e nel 2017 gli italiani residenti all’estero (oltre 5.114.000, di cui quasi 2.657.000 per espatrio) sono in aumento. I cancellati alle anagrafi sono stati 114.000 nel 2017 (120.000 secondo le prime stime dell’Istat per il 2018). Si tratterebbe dello stesso livello di espatri degli anni Sessanta, con la differenza che ora a lasciare l’Italia sono sopratutto i laureati: erano appena 3.500 nel 2002 e sono diventati 28.000 nel 2017, per un totale di 193.000 laureat* e 258.000 diplomat* in sedici anni. Si può affermare che nella fase attuale l’Italia ha perso nel 2017 tra i 90mila e i 108 mila connazionali altamente qualificat* e che tra il 2002 e il 2017 sono stati circa mezzo milione i laureati e le laureate che sono andat* a cercare fortuna all’estero, di cui almeno un terzo non è più ritornato indietro. (Francesco Floris)