— Questa è una lettera dall’Università statale di Mosca Lomonosov, l’università più antica e prestigiosa della Russia. Più precisamente, dal sesto piano dell’ obščezhitie, pittoresco studentato ex-sovietico dentro cui il 1989 pare non essere mai arrivato, presso la sede centrale dell’Università, in uno degli edifici architettonicamente più rilevanti della capitale. Si tratta di una delle cosiddette “sette sorelle di Stalin”, grattacieli in stile classicista-socialista costruiti fra il 1947 e il 1957. Lì ho vissuto e studiato per un semestre, e solo ed esclusivamente in questo ambiente hanno potuto formarsi le impressioni che mi hanno accompagnato nello scambio.

La presa di coscienza che fa da sfondo a tutte le considerazioni fatte giorno dopo giorno è quella di aver vissuto in un ambiente elitario. Alla base di questa elitarietà c’è innanzitutto il fatto stesso di aver vissuto a Mosca. Il profondo divario socioeconomico che caratterizza la Russia post-sovietica non separa solamente gli strati sociali più alti dai più bassi, bensì allontana anche la capitale dal resto della Russia. I russi stessi sono soliti dire che “Mosca non è Russia”, perché vi sono caratteristiche comuni a tutte le altre città maggiori che non appartengono in nessun modo alla capitale e viceversa. Ciò crea un profondo squilibrio tra la vita a Mosca e la vita in altre città. Per citarne alcune: Nizhnij Novgorod, Novosibirsk, Kazan’, Samara, Ekaterinburg. Tutte queste città contano svariati milioni di abitanti e un’intensa attività economica e industriale, e presentano alcune caratteristiche comuni. I centri storici sono spesso di dimensioni ridotte e sono accerchiati da grigie periferie sconfinate che talvolta fanno sembrare queste città dei paesoni sovrappopolati. Nel migliore dei casi, come a Nizhnij Novgorod e Kazan’, i siti di interesse culturale sono ben preservati. Altre volte, come a Smolensk (città dalle dimensioni più ridotte, ma comunque di notevole interesse perché capoluogo della omonima oblast’ e di fondazione antichissima, 863 d.C.), ci si ritrova innanzi allo sconfortante spettacolo di un consistente patrimonio culturale lasciato cadere in rovina. Nello specifico caso di Smolensk si tratta dell’imponente cinta muraria cinquecentesca, la più grande di tutta la Russia: privata di qualsivoglia opera di manutenzione, è ormai adibita a discarica ufficiosa e cimitero di siringhe.

Altro tratto comune a molte grandi città che le allontana dalla bambagia moscovita è la qualità dei servizi pubblici e dell’offerta in ambito culturale e d’intrattenimento. Ad esempio, Mosca vanta un servizio di pulizia stradale impeccabile. Anche a -30 gradi tutti i marciapiedi restano valide opzioni per una passeggiata in sicurezza senza il pericolo di giocarsi gli arti inferiori dopo un triplo carpiato non desiderato. A Nizhnij Novgorod, al contrario, un milione e 300mila persone lottano da novembre a marzo contro i dieci centimetri di ghiaccio che ricoprono i marciapiedi sia in centro che in periferia e che rallentano e ostacolano notevolmente il traffico pedonale. Un discorso analogo si può fare riguardo al trasporto pubblico: mentre a Mosca si possono facilmente aggirare le scocciature comunemente associate al traffico delle megalopoli grazie a mezzi moderni, numerosi ed efficienti, a Smolensk i principali mezzi di trasporto pubblico cittadino sono tram vecchi di quarant’anni su cui spesso e volentieri ci si imbatte in tubi arrugginiti che rotolano liberamente lungo il pavimento del veicolo. E così si potrebbe proseguire ancora per un bel po’: una lunga serie di dettagli di poco conto, che oltre a rivelare una certa miseria in evidente contrasto con lo sviluppo economico del Paese vanno a colpire la percezione del visitatore, specie se questi è tanto fortunato da risiedere a Mosca. Sulla via del ritorno da ogni viaggio intrapreso la sensazione era sempre una: quella di essere dei privilegiati.

Altro fattore a rendere elitaria la mia esperienza è aver studiato alla Lomonosov che, come già detto, è considerata l’ateneo più importante e prestigioso della Russia. L’Università è celebre anche per i suoi requisiti di accesso rigidi e restrittivi, che garantiscono un posto solo a chi supera i test con punteggi molto alti. Questo conferisce autorevolezza all’istituzione e riempie di orgoglio studenti e docenti. Fortunatamente, ogni anno vengono messe a disposizione degli studenti con reddito famigliare basso numerose borse di studio, così da garantire pari diritto allo studio a chiunque ottenga risultati ottimi indipendentemente dalle disponibilità ecomiche e mantenere in questo modo il carattere meritocratico (e democratico) dei requisiti di accesso. L’Università è tuttavia nota anche per la sua forte impronta conservatrice. Per rendere l’idea, l’ospite d’onore alla cerimonia del Giorno dello studente a gennaio 2017, che dopo un solenne discorso deliziò i fortunati spettatori con un breve intermezzo canoro, era Vladimir Putin. Forse è per questo caparbio tradizionalismo che tutta la burocrazia è ancora su base analogica, priva di qualsivoglia database o apparato gestionale digitale, chi può dirlo. In ogni caso, oltre all’interminabile serie di foglietti, permessi, moduli e timbri da conquistare lungo trentatré piani di sede amministrativa in una folle caccia al tesoro che prevede come premio finale la mancata espusione dal Paese, questa impronta conservatrice ha ulteriori risvolti concreti. L’ambiente universitario della Lomonosov è molto solenne e costantemente impegnato nella celebrazione del suo passato glorioso, costellato da numerosi scienziati, filosofi e politici, tra cui diversi premi Nobel. In quello che sembra un costante ritorno al passato, ogni istanza progressista viene, se non esplicitamente evitata, quantomeno scoraggiata dall’ambiente circostante.

Forse è la retorica sull’università tutta occidentale a cui siamo quotidianamente sottoposti che aumenta le aspettative giorno dopo giorno, forse è la ricca proposta di incontri, seminari e dibattiti che molte università italiane offrono ai propri studenti che ci ha abituati bene. Forse ancora è una più generale visione utopistica che accomuna tutta l’Unione europea. A ogni modo, all’ambiente universitario siamo generalmente portati ad associare l’apertura al confronto e al dialogo, nella volontà di crescere allargando le proprie prospettive mediante l’inclusione di punti di vista nuovi. In Russia, invece, ho trovato un ambiente universitario straordinariamente efficiente e funzionale dal punto di vista “tecnico”, impegnato a garantire una solida formazione accademica agli studenti inserendoli in un contesto rigido quanto competitivo. A questa solida formalità si contrappongono, tuttavia, lacune significative per quanto riguarda il lato forse più “umano” dell’istituzione, l’approccio relativo al metodo e non ai contenuti, la tendenza a voler fare dell’università anche una “scuola di vita” e tutti i risvolti concreti che ne conseguono. L’associazionismo, inteso non come a sfondo prettamente politico, sedizioso o volto all’intervento sociale, bensì come volontà di dare vita a nuove realtà più o meno autonome (circoli, gruppi, associazioni culturali autogestite) è pressoché inesistente al di fuori di circoli scarni controllati dalle autorità universitarie. La cultura del dibattito e del confronto è assente, così come lo è la sua promozione a livello istituzionale tramite l’organizzazione di incontri, laboratori, dibattiti e seminari aperti. Protagonista di questa realtà è una generazione di studenti modello che riceve una preparazione ottima grazie a professori competenti e preparati nel principale ateneo della Russia e che andrà probabilmente a costituire la prossima classe digirente del Paese; ma che appare, d’altro canto, totalmente distaccata dalla realtà esterna e incapace di confrontarsi con l’altro in maniera metodica e produttiva.

Anche al di fuori dell’università, i ragazzi miei coetanei che non si sono mai immersi completamente in una realtà esterna ed estranea ai meccanismi che regolano la vita in madrepatria, presentano generalmente non solo una certa incapacità di dibattere e confrontarsi, ma, elemento ancor più allarmante, nessuna voglia di farlo. Se spinti al confronto da una persona che non condivide il loro retroscena culturale (in parole povere, uno straniero) appaiono sbigottiti e sospettosi, come a voler indovinare quale sia lo scopo concreto di tutto questo. Molto spesso il rifiuto è a priori. Se posti innanzi alla possibilità di affrontare in modo pacato e discorsivo argomenti controversi, anche in situazioni di relativa intimità (e non, per esempio, davanti a professori o ad autorità di qualsiasi tipo) molti ragazzi rifiutano l’offerta. Non vogliono entrare nel merito né intavolare alcun tipo di confronto. Si chiudono, se forzati rispondono con aggressività, e all’interlocutore non rimane altra scelta che battere in ritirata. Un caso esemplare di questo atteggiamento mi si palesò in un museo. Il museo d’arte contemporanea Garage è forse l’istituzione moscovita più aperta e progressista. All’interno della Triennale d’arte contemporanea tenuta questo inverno c’era un padiglione interamente dedicato alla cosiddetta “arte dell’azione”: un dettagliato reportage su progetti, manifestazioni e iniziative organizzati da movimenti egualitari e femministi a sostegno dei diritti civili, nei quali erano coinvolti artisti di vario genere. Il reportage includeva anche storie e testimonianze di coloro che furono arrestati dalle autorità russe nel corso di numerose manifestazioni, tra cui le note Pussy Riot. Il tutto accompagnato da significativi disclaimer da parte del museo, a specificare che la galleria non supportava necessariamente quanto illustrato dal materiale esposto. L’esposizione era ricca e ben curata, accompagnata da pannelli informativi minuziosi e dettagliati, che contestualizzavano il materiale in modo obiettivo e distaccato, offrendo così uno scorcio su temi di attualità con un approccio il più possibile informativo e non fazioso. Rimasi piuttosto sbigottita quando due compagne di corso poco più che ventenni si rifiutarono di entrare nella sala, affermando che non gli piacevano queste cose senza fornire ulteriori spiegazioni. Un rifiuto naïf quanto ottuso. Un altro tratto che spesso accompagna questa testarda chiusura al confronto è infatti l’incapacità di argomentare. Talvolta si ha l’impressione che i concetti di tesi, antitesi, sintesi e dibattito siano ai ragazzi totalmente estranei. Quasi sempre manca infatti la volontà di far valere la propria opinione su basi logiche o deduttive, impegnandosi a sconfiggere l’avversario con gli strumenti della ragione e della retorica; non c’è la necessità di conferire autorevolezza al proprio pensiero mostrandone i fondamenti razionali; non c’è l’abitudine a giungere a una conclusione mediana fra due posizioni dopo una discussione. Manca l’approccio dialettico che a una tesi e un’antitesi fa seguire una sintesi. Insomma, manca il dibattito come modus operandi, scoraggiato nelle aule universitarie e quasi estraneo ai ragazzi nella vita di tutti i giorni.

Tratto non meno importante per quanto riguarda il confronto con l’esterno è anche la difficoltà dei giovani russi a entrare in contatto col mondo oltre i confini della Federazione. Escludendo i millennial per i quali, secondo molti, le cose stanno cambiando, per molti ragazzi che non si sono mai trovati immersi nella cultura di un altro paese è difficile documentarsi e ricevere informazioni riguardanti l’esterno. Non si tratta di censura sistematica e ufficiale come avviene, per esempio, in Cina; si tratta principalmente di silenzio riguardo a certe questioni che in Occidente sono invece molto diffuse, che non impedisce quasi mai di reperire informazioni a riguardo, ma di certo ne ostacola la ricezione. Stampa e televisione in Russia sono notoriamente sotto il controllo ufficioso del governo, molti dei direttori dei maggiori canali e quotidiani appartengono alla cerchia di sostenitori di Putin, e le persecuzioni e minacce ai giornalisti d’opposizione degli ultimi anni hanno certamente fortificato le mura di silenzio già esistenti. Per quanto riguarda internet, il discorso è più complicato: c’è una lista nera di siti oscurati dal governo che si fa sempre più lunga, e in seguito a diverse proposte del Consiglio di sicurezza della Federazione russa si è presa in considerazione la possibilità di attuare provvedimenti volti a inasprire i controlli dei contenuti sul web, al fine di impedire che alcune pagine “indeboliscano i valori culturali e spirituali” (sic) dei giovani del Paese. Oltre a questo tipo di provvedimenti, è anche significativo il fatto che gran parte dei ragazzi faccia largo uso del social network Vkontakte, diffusissimo in Russia e nei paesi russofoni, ma pressoché sconosciuto in Europa e nel resto dell’Occidente. Oltre alla denuncia dell’ex-fondatore, secondo il quale ormai il social network e i suoi contenuti siano in mano al governo dopo le sue più o meno forzate dimissioni, è abbastanza intuitivo il fatto che un social network con tali caratteristiche non sproni lo scambio culturale con i paesi occidentali, né ne introduca le tematiche in circolazione.

Legata a questi fattori considero dunque l’ignoranza grossolana da parte di molti sui temi di ampissima diffusione in Europa, come il riscaldamento globale. Rimasi basita quando, in una discussione sorta a fine lezione, studenti e professoressa affermarono davanti a me e a un’altra italiana di non riconoscere la validità scientifica del fenomeno del riscaldamento globale, da alcuni additato come teoria bislacca e vagamente complottista, da altri apertamente negato poiché considerato una delle “normali fasi climatiche alterne che caratterizzano le ere geologiche”, alla stregua delle glaciazioni. Chiaramente, il fatto più sconcertante non fu questa opinione in sé, ma a chi appartenesse e in che contesto. In una visione certamente ottimistica, forse utopistica, l’università dovrebbe essere un luogo sì disposto ad accogliere e discutere opinioni discordanti, ma anche e soprattutto un solido baluardo della scienza volto ad approfondire e a diffondere la conoscenza, anche quando questo significa scostarsi dall’ideologia dominante. Alla Statale di Mosca questa è pura utopia.

Fortunatamente, tuttavia, Mosca è una megalopoli attraversata da un intenso fermento culturale che lascia spazio a realtà undeground in cui certe tematiche possono essere affrontate, sebbene in misura assai minore di quanto potrebbe accadere in qualsiasi metropoli europea. Si tratta comunque di un duello ostico, perché la capitale è controllata a livello capillare e sono davvero poche le realtà che riescono ad aggirare il controllo statale nelle sue varie forme. Rimane il dubbio sulle generazioni future: sono in molti a pensare che i nati dal 2000 in poi riusciranno a venire in contatto e a fare proprie le stesse istanze progressiste che stanno lentamente prendendo piede in certi ambienti nel continente europeo, grazie a internet e alle possibilità via via maggiori di fare esperienze all’estero che il governo russo sta offrendo ai giovani studenti. Tuttavia, la Russia è un paese ben consapevole della propria identità e della propria storia e si impegna a rimarcarle e onorarle a ogni occasione e con ogni espediente possibile. È un paese autoreferenziale ed estremamente fiero che sottolinea e consolida di giorno in giorno i valori considerati fondanti per la società, gli stessi che vengono riproposti alle nuove generazioni all’infinito, in un eterno salto nel passato. Qualora questo passato sia il passato reale o un passato mitico, opportunamente rivisitato dalle autorità del presente per dare una base solida ai valori proposti ai più giovani, è un dubbio (lecito?) lasciato alla coscienza dell’osservatore.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 44 degli Asini: acquista il numero e abbonati per sostenere la rivista.