Articolo di Elisabetta Serafini

—  Nelle scuole italiane i manuali raccontano ancora una storia a metà, dove le donne non compaiono oppure sono un’eccezione. L’indagine condotta su 18 volumi di 15 case editrici

L’inclusione della storia delle donne e degli studi di genere nei libri di testo in Italia è senza ombra di dubbio un traguardo ancora lontano dall’essere raggiunto, nonostante la normativa relativa alle pari opportunità abbia alle spalle una storia più che ventennale.

Questa storia ha avuto inizio nel 1999, quando il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Associazione Italiana Editori, tra gli altri, approvavano un codice per le pari opportunità nei libri di testo, il P.O.Li.Te. Il codice si innestava su una riflessione di vasta portata riguardante la questione delle pari opportunità – con riferimento, allora, ad “ambedue i generi” (punto A.2) – e la necessità di affrontarla non come problema contingente o separato ma come azione politica da porre in termini positivi in molteplici settori, non ultimo quello dell’istruzione.

L’urgenza dell’intervento nel settore scolastico, e non solo strettamente manualistico, era stata posta nell’ambito della quarta World conference on women di Pechino del 1995, dell’europeo Quarto programma d’azione per le pari opportunità per le donne e gli uomini del 1996-2000, e accolta dalla Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 marzo 1997, recante “azioni volte a promuovere l’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e garantire libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini”.

Più recentemente, il tanto discusso decreto legge 93 del 14 agosto 2013 – convertito nella legge 119/2013 e contenente “disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere” – ritornava sulla rilevanza dei libri di testo nella prevenzione della violenza nei confronti delle donne e della discriminazione di genere. L’articolo 16 della legge 128/2013, inoltre, prevedeva finanziamenti alla scuola per l’aumento “delle competenze relative all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere”.

Se al momento della sottoscrizione del codice P.O.Li.Te. l’aspetto che emergeva con più evidenza era l’assenza delle donne nella manualistica, oggi – a distanza di quasi vent’anni da quella data – le criticità sembrano non essere legate soltanto e ancora a una narrazione storica incompleta ma anche a un inserimento opinabile.

L’assenza e la discutibile inclusione di questa importante parte di sapere nei testi di storia in uso nella scuola primaria e secondaria di primo grado – di cui mi sono specificamente occupata – appaiono ancor più intollerabili perché doppiamente anacronistiche, a causa non solo della mancata o parziale considerazione degli strumenti nati a tutela delle pari opportunità – a cui nel frattempo si sono aggiunti riferimenti legislativi rimasti lettera morta[1] – ma anche e soprattutto dell’inadeguatezza rispetto allo stato dell’arte.

Molta strada è stata infatti percorsa in ambito storiografico – italiano ed internazionale – a partire dalla seconda metà del secolo scorso; notevoli sforzi divulgativi sono stati compiuti per favorire l’ingresso a pieno titolo delle donne nel racconto storico, per condurle fuori da quella sfera dell’immutabile nella quale erano sempre state collocate dalle grandi narrazioni. A larga distanza da quella fase il vuoto è stato in gran parte colmato, ponendo anche la questione dell’urgenza di decostruire e ridiscutere i quadri di riferimento.

La manualistica scolastica si è però palesata impermeabile a questo significativo adeguamento del sapere, nonostante gli impegni presi ufficialmente dalle case editrici ma soprattutto nonostante le esigenze educative che nascono dal basso, da studenti e da docenti che nella maggior parte dei casi si trovano a rispondere con l’autogestione alla carenza di strumenti e materiali.

Tornando ai libri di testo, già nell’indagine pubblicata nel 2010 da Irene Biemmi, su un campione di libri di lettura per la classe quarta della scuola primaria, emergeva un’importante assenza femminile ancor più marcata se le storie erano ambientate nel passato, considerata la quale si sosteneva: “Trascurando di rappresentare le donne in epoca passata, i testi scolastici forniscono una visione distante della realtà e della storia: il mondo del passato appare popolato da soli uomini, le donne sembrano non esistere”.

Se il femminile era parzialmente rappresentato al presente, lo era ancor meno al passato: la conquista dello “spazio” sui manuali si configurava, allora come oggi, lenta e faticosa.

Numerosi stimoli mi hanno condotta a voler intraprendere un’indagine specifica sui libri di testo di storia[2]. In primo luogo il fatto di trovarmi a operare in due contesti – quello scolastico, nello specifico della scuola primaria, e quello accademico, e l’interesse verso i gender studies – che spesso non dialogano tra loro in modo efficace, ha favorito il rilevamento nella manualistica di importanti incongruenze. Inoltre, l’occuparmi della progettazione di una collana di storia delle donne e di genere, che vede collaborare la Società Italiana delle Storiche e la casa editrice Settenove, ha determinato la necessità di verificare quale fosse lo stato dell’arte dell’editoria – in particolare scolastica – al riguardo.

Sono stati analizzati 18 volumi e 15 case editrici[3] per le classi comprese fra la terza della scuola primaria e la terza della scuola secondaria di primo grado per osservare in essi la presenza della storia delle donne e di genere in termini quantitativi e qualitativi.

In linea generale la presenza di argomenti che includono le differenze di genere si fa crescente andando avanti cronologicamente e, stando ai programmi, procedendo con le classi – non va mai oltre il 20% delle pagine. Per chi non fosse addetta/o ai lavori, nelle classi prese in esame si va dalla preistoria alla storia contemporanea. Questa considerazione soltanto parziale, da un lato imputabile all’eccessiva banalizzazione del racconto storico che si tende a proporre nelle classi della scuola primaria e alla minore presenza di testi divulgativi relativi all’età antica, estromette arbitrariamente importanti momenti della vita politica e sociale delle donne ormai riportati alla luce. La storia delle donne si riduce tendenzialmente al discorso sull’acquisizione dei diritti politici tra Otto e Novecento, che non tiene in considerazione ad esempio le precedenti vicende rivoluzionarie durante le quali era stata già posta la questione della rappresentanza politica. L‘ingresso delle donne nella storia si verifica, per molta manualistica, nel XX secolo con il suffragismo, il primo conflitto mondiale – quando le donne prendono il posto degli uomini – ma non si tratta di un ingresso effettivo e definitivo, considerata la pressoché totale rimozione delle battaglie femministe degli anni Sessanta e Settanta che, laddove presenti, sono ridotte ad approssimativa storia di supplemento.

Raccontare poi la storia delle donne a partire dai percorsi di emancipazione, oltre che limitare la comprensione delle radici dell’ineguale rapporto tra i sessi, restituisce per il resto dei secoli un quadro di immobilismo e immutabilità che non ha alcuna rispondenza nella realtà. Le numerose pubblicazioni sulla storia del lavoro delle donne, ad esempio, da decenni affermano che le donne hanno sempre lavorato. Ma di questo racconto nulla traspare nei brani e nelle immagini dei libri di testo, nei quali le società vengono raccontate come composte da soli uomini e da un unico prototipo femminile, declinato al singolare e spesso descritto unicamente per ciò che attiene alle sue caratteristiche estetiche. Uniche ad emergere da questa indefinitezza le sante e le regine ma anche in quei casi si assiste frequentemente a rappresentazioni distorte.

Il passato delle donne non può essere narrato soltanto attraverso la lente della politica e la fascinazione nei confronti delle vite eccezionali. Ridurre la storia delle donne, delle relazioni di genere, alla presentazione delle pur interessanti vite di illustri personaggi, al racconto, parziale e non problematizzato delle battaglie per l’ottenimento dei diritti politici non può che essere fuorviante rispetto alla ricostruzione del quadro vivace e composito nel quale si intersecano le storie del nostro passato.             (6 giugno 2017)

Note  [1] Come nel caso del tanto discusso comma 16 dell’art. 1 della  legge 107/2015 e dei “chiarimenti e riferimenti normativi a supporto” del settembre 2015.  [2] La ricerca, condotta su libri di testo di storia in uso nella scuola primaria e nella secondaria di primo grado, è stata presentata nell’ambito del VII Congresso della Società Italiana delle Storiche (Pisa, 2-4 febbraio 2017). [3] Sono stati presi in esame 18 testi, 3 per ogni classe, delle case editrici Cetem, De Agostini, Erickson, Fabbri, Gaia, Giunti, Il Capitello, La Scuola, La Spiga, Lisciani, Loescher, Minerva, Mondadori, Pearson, Zanichelli a partire dall’anno scolastico 2014-2015, con aggiornamenti relativi agli anni successivi. Dopo una prima ricognizione di tipo quantitativo, sono state analizzate la parte iconografica e quella testuale, anche dal punto di vista del linguaggio, incrociandole con lo sguardo diacronico. Da questi diversi livelli di analisi sono emerse molteplici problematiche sia di tipo contenutistico/tematico sia di tipo formale.

Riferimenti  Irene Biemmi, Educazione sessista, Rosenberg & Sellier, 2010