L’articolo di Luigino Bruni su famiglia cristiana  ci è stato segnalato dall’agenzia di Franco Abruzzo

— Le pensioni sono un pilastro del patto sociale di una società. Perché le pensioni sono il ponte che unisce le generazioni. Quando un lavoratore va in pensione, in quell’assegno c’è – o c’era – molto più dei contributi che aveva (o non aveva) versato nel corso della sua vita. C’era soprattutto la gratitudine civile verso quella persona che aveva passato i suoi anni migliori lavorando. Perché tutti sappiamo (o dovremmo sapere) che il salario che un lavoratore riceve ogni mese è solo la punta dell’iceberg del valore, anche economico, che ha creato individualmente e insieme. Il salario, soprattutto quando si aggira attorno ai 1.000/2.000 euro, è davvero poco più di un rimborso spese – se pensiamo che 1.000/2.000 euro sono quanto prende un buon consulente per una giornata di lavoro, un bravo professore per una conferenza, un briciolo dei rendimenti di molti titoli in borsa. Il nostro lavoro vale molto di più della sua remunerazione, anche quando è generosa (è non è il caso dell’Italia).

Quando si mette mano alle pensioni si mette mano allora a qualcosa di molto serio e profondo, alla fides (corda e fiducia) che ci lega, che sta diventando sempre più fragile – ecco perché quel ponte spezzato sopra Genova è anche un’icona, tragica, dello stato etico del nostro Paese.

Riformare le pensioni, e quindi nel tagliare le pensioni d’oro per ridistribuire ricchezza alle pensioni minime o basse, è operazione in sé meritoria e, per molti versi, necessaria. Il sistema delle pensioni esprimeva, infatti, una visione della società italiana tipica del Novecento, e quindi gerarchica e a tratti castale, che va cambiata per farla entrare nel terzo millennio. Ma non dobbiamo dimenticare alcune avvertenze economiche ed etiche.

Non è il lavoro a creare i ricchi. Se oggi guardiamo chi sono i veri ricchi, i lavoratori sono molto pochi. Abbiamo soprattutto percettori di rendite, nelle sue varie forme. E le rendite non sono né salari, né profitti, quindi né pensioni. Se il governo vuole colpire le rendite, e farebbe molto bene, non deve iniziare dalle pensioni, perché il 90% di quelle che vengono chiamate pensioni d’oro sono legate al lavoro. E perché buona parte dei veri ricchi (che non sono pochi) non ricevono pensioni d’oro perché hanno residenze all’estero, sono ‘elusori’ o evasori totali, e alcuni non hanno mai lavorato veramente. I redditi d’oro non prendono quindi la forma delle pensioni, se non in pochissimi casi, e non sono certo quelle che si aggirano attorno ai 4.000 euro al mese (ma sono molto, molto, più alte).

Prima di cambiarla, le pensioni da lavoro vanno rispettate come si deve rispettare il lavoro che le ha generate. Un lavoro che era figlio della cultura del Novecento, dove il lavoro della mente era stimato diversamente e di più (forse troppo) del lavoro e dell’intelligenza delle mani. Ma non possiamo oggi umiliare e offendere anziani che negli ultimi anni di vita interpretano quella riduzione di reddito come riduzione di gratitudine e stima. Si potrebbero ottenere risultati analoghi, ma con minori danni morali, se si cambiasse il tono ‘giustizialista’ e anti-elites che domina questa riforma, che è quasi sempre inopportuno e inutilmente offensivo. Le elites sono tante, non tutte cattive, e soprattutto molto diverse.

Allora, una seria revisione delle pensioni, e quindi del patto sociale, dovrebbe guardare con più attenzione le rendite, distinguere le pensioni d’oro vere e poi tassarle diversamente. Ricordardosi un po’ di più di quel bellissimo principio di progressività che fa onore alla nostra costituzione. E magari, infine, chiedersi se la flat tax sia davvero coerente con questa politica ridistribuitiva che sembra animare la riforma. Quando si mette mano ad un patto sociale la coerenza dei messaggi, il tono pacato e mite e la stima grata per gli anziani sono ingredienti essenziali, per non far crollare questo altro ponte per incuria e mancanza di accudimento