Sulla venuta per la prima volta in Italia – all’università RomaTre, per una giornata di studi – delle due studiose statunitensi Wendy Brown e Judith Butler, giornali e mailing list femministe hanno perloppiù dato risalto alla presenza della seconda, la più conosciuta perché da noi sono arrivati e sono stati tradotti libri importanti. Nessun libro della prima, filosofa politica della California, è stato tradotto in italiano e quindi la conoscenza del suo pensiero è rimasta confinata in ambiti più specialistici; mi auguro che ora qualche casa editrice sponsorizzi la traduzione di qualche suo scritto, perché il taglio della sua relazione e l’approccio concreto – come spesso accade in area anglosassone – anche a problemi filosofici sono, mi sembra, garanzia di una diffusione in ambiti meno specialistici.

Confesso che sono andata ad ascoltarla con curiosità ma anche con una certa apprensione, temendo la pesantezza o, meglio, difficoltà di concetti e linguaggi: sono stata letteralmente spiazzata dalla sua scelta di analizzare il tema della crisi di sovranità dello stato-nazione a partire dal fatto concreto della costruzione – dopo l’abbattimento del muro di Berlino! – dei tanti “nuovi muri che segnano la superficie del pianeta” {{(“epidemia di innalzamento di muri”)}} e viceversa leggere questi con l’occhiale delle “difficoltà politiche in questa fase della storia”. Come ha giustamente commentato Maria Luisa Boccia, ne è venuta fuori una “splendida” relazione per questo intreccio con {{la concretezza fisica dei “muri”.}}

Ad immagini fotografiche forti, si è unito innanzitutto un elenco dei tanti muri costruiti o progettati, alcuni noti altri dimenticati o insospettati, altri ancora solo ipotizzati. Non solo il muro Israele/Palestina o quello Usa/Messico ma anche tra Sud Africa e Zimbawe, tra Arabia e Yemen, tra Uzbekistan e Tadzhikistan, tra Emirati arabi e Oman, tra Israele ed Egitto… E se si pensasse a quello Usa/Canada ne verrebbe fuori la più lunga muraglia.

Il “muro” è un’immagine arcaica, antimoderna in questa fase storica cui sembrano più adeguate forme di potere “porose”, “vaporose”, “fluide”; sono proprio il segno del fallimento della sovranità dello stato-nazione, la risposta ai timori di annacquamento dell’identità nazionale, la messa in scena della forza del potere rivolta agli stessi cittadini interni. Costruiscono {{una sovranità immaginaria}}.
Giocano a dare l’immagine del confine e dello stato che protegge chi è dentro, anche le tecnologie: le video camere sulle muraglie, ma anche la costruzione di siti da parte di anonimi sostenitori di politiche sicuritarie (esempio: {www.usborderpatrol.com).}

Vecchi e nuovi muri segnano il fallimento della democrazia, il superamento dello stato di diritto verso lo stato delle illegalità: la forza al posto del diritto.

Ma Wendy Brown segnala lo studioso {{Mike Davis}} che paragona i muri alle {{grandi dighe: regolatrici di flussi (in questo caso di persone e beni) ma anche immagini possenti di potenza costruttiva}}.

Facendo riferimento e leggendo dal sito sopracitato una poesia/preghiera allo stato, Wendy Brown pone a conclusione della sua relazione anche la possibile lettura della costruzione del muro come tentativo di recuperare un fondamento teologico ad una sovranità degli stati erosa e dislocata.

Nel corso dell’incontro, è stata distribuita in lignua originale la lunga relazione che sicuramente merita una conoscenza più approfondita anche per tutti i rinvii ad altri testi.

Informazioni: stampa@uniroma3.it; www.uniroma3.it (sezione news)