Articolo di Paola Santoro – Foto di Peter Rigaud


Dopo decine di bestseller Edit Schlaffer ha deciso di passare ai fatti. Con la sua ong Women without Borders. Un giorno di “lezione” a Srinagar, in India.

—Il terrorismo si può combattere anche da una grande stanza vetrata nel centro di Vienna, in un grattacielo multidirezionale ai piedi del Prater. Lì, al piano terra, la lotta all’estremismo di matrice islamica è curva su un computer. Indossa una strutturata camicia bianca palesemente sgualcita da lunghe ore di areo e una collana di grossi coralli, «è sempre con me, regalo di un’amica lontana». Elegante, energica, di quel flusso che può derivare soltanto da un ottimismo senza confini, la sociologa Edit Schlaffer sta mettendo a punto la sua ultima impresa: sbarcare a Skopje, in Macedonia, con la sua organizzazione, Women without Borders. Ancora una volta, dopo averlo fatto in India, Pakistan, Belgio e Gran Bretagna, porterà a scuola le donne. Non è un piano di scolarizzazione: alle sue particolari lezioni parteciperanno soltanto mamme i cui figli sono sull’orlo, o a rischio, di radicalizzazione. «I Balcani vivono un’ondata di gravi tensioni. La regione è estremamente instabile, in Macedonia non c’è un governo, il Kosovo è volatile, la violenza sta dilagando, in Bosnia e Croazia ci sono derive sociali di tipo fascista». Lei insegna alle madri come stringere i fili della comunità, perché nessuno, a partire dai ragazzi, si senta escluso e ceda ai richiami suadenti del radicalismo.

 

Sociologa con una storica cattedra all’Akademie fur Sozialarbeit di Vienna, 66 anni, Schlaffer è stata un’antesignana del femminismo, del quale ha fatto a lungo un vessillo. I suoi libri – decine – scritti spesso a quattro mani con Cheryl Benard (statunitense, anche lei sociologa, moglie di Zalmay Khalilzad, ex ambasciatore americano in Afghanistan, in Iraq e alle Nazioni Unite) hanno titoli elequenti come Fuppie. Il femminile di yuppie, o Lasciate in pace gli uomini. Per un felice rapporto di coppia (entrambi in Italia per Feltrinelli) o ancora Let’s Kill Barbie. Spesso sono diventati bestseller internazionali e hanno fatto di Edit una delle più ascoltate voci militanti degli anni ’80 e ’90.

Ma a un certo punto limitarsi alle parole non le è più bastato. «Tra il 2000 e il 2001 ero in Afghanistan, a fare ricerche per l’università. I russi si erano ritirati da tempo, lasciando spazio prima alla guerra civile e poi all’ascesa dei Talebani. Incontrai a Kabul una donna della piccola borghesia locale: mi impressionò come, pure in condizioni così estreme, riuscisse in un modo molto sottile a far sopravvivere la propria comunità. Le scuole erano chiuse, gli ospedali pure, ma lei e le altre madri riuscivano a muovere tutto dietro le quinte, segretamente. Insegnavano ai ragazzi, a gruppi, nei soggiorni delle case, curavano i feriti e i malati in salotto, facevano passare oltre confine testimonianze della sharia che stava asfissiando il paese, gestivano un’invisibile rete di diplomazia, pragmatica e alternativa. Ho studiato da vicino questo fenomeno underground, e le conclusioni che ne ho tratto sono che in circostanze estreme le donne sono in grado di elaborare strategie complesse e dal ritorno immediato più degli uomini. È stata una folgorazione: per me era quella la nuova interpretazione della leadership, era quella la nuova prospettiva. Al ritorno da quel viaggio andai in comune, qui a Vienna, e registrai ufficialmente il progetto di Women without Borders», organizzazione di empowerment – definizione a quei tempi ancora pionieristica – che punta a formare donne peace-maker su piccola e media scala, esulando dagli interventi istituzionali che “cadono dall’alto”.

«Fin qui abbiamo sbagliato, ma ora siamo sulla strada giusta», sorride Edit. «Chi crede ancora a una diplomazia fatta di uomini in completo grigio seduti a un tavolo a “dialogare”? Certamente sono armati di buone intenzioni, ma sono totalmente sconnessi dai bisogni concreti delle persone». Ma come si fa inclusione sul terreno? E davvero le madri possono essere deteminanti? «Nel movimento femminista avevamo i gruppi di coscienza, il nostro era il dovere di comprendere che meritiamo di essere uguali, che meritiamo i nostri spazi e le nostre libertà. Oggi, quando in una famiglia qualcosa non va, sono le donne a chiedersi in cosa hanno sbagliato, entrano in un processo doloroso in cui non trovano alternative a questa visione colpevolista. Invece bisogna scendere dentro di sé, esattamente come si faceva nei ’70, e trovare un’altra soluzione, capire il proprio potere, connettersi con gli altri membri della famiglia in modo più proficuo». Schlaffer, seduta al di là di un tavolo bianco nel suo ufficio, si scalda a tal punto, mentre parla, da avvicinarsi lentamente ma inesorabilmente al suo interlocutore, quasi cercando a sua volta una maggiore connessione.

Sollecitare una nuova consapevolezza nelle madri è alla base della sua ultima impresa, le Mothers schools. «Nel 2003 sono partita con una missione Ocse per Khujand, la seconda città del Tagikistan, per tenere un workshop sulla leadership femminile. Ho incontrato donne fantastiche, che gestivano la famiglia in assenza dei mariti, emigrati all’estero per lavorare. Ho chiesto loro quale fosse la sfida maggiore, mi hanno risposto: “I ragazzi”. Mi spiegarono che il proselitismo wahabita nella regione era molto attivo, che i loro figli cominciavano a preferire le moschee alla scuola. Chiesi loro se avevano cercato, con il dialogo, di capirne i motivi. Mi dissero che no, non c’era comunicazione, perché questi dodicenni, tredicenni, quattordicenni erano già uomini fatti, che vivevano il confronto come un affronto. Allora chiamai uno psicologo. Trascorse quattro giorni a spiegare che no, quelli erano solo poco più che bambini confusi, che l’adolescenza aveva delle dinamiche e dei limiti, che erano figli che stavano cambiando, e che bisognava comprenderli e costringerli a uno scambio. Alla fine una delle leader del gruppo mi disse: “Oggi non vorrei tornare a casa. Non li dimenticherò, questi giorni. Forse noi madri dovremmo tutte tornare a scuola”». Mothers schools era la parola chiave: Edit da quell’idea ha cominciato a chiedersi come connetterle, come creare una rete di supporto, perché le madri si fidano l’una dell’altra, degli insegnanti, ma non delle istituzioni che dovrebbero occuparsi di loro.

Schlaffer ha aiutato quasi 1500 donne a comprendere meglio le dinamiche della famiglia e della comunità. È partita grazie a un cospicuo finanziamento del governo viennese, cresciuto poi negli anni con donazioni di stati, di ambasciate, e con il supporto fondativo dell’Ocse, «su privati e grandi filantropi stiamo ancora lavorando, io sono una ricercatrice dai mille contatti, e per la causa non mi vergogno mai a farli valere. A chiedere».

Il campo di battaglia sono tutti quei paesi dove i conflitti politico-religiosi sono endemici – dal Pakistan alla Nigeria, a Israele, alla Palestina, all’Irlanda del Nord, all’Indonesia – e negli ultimi anni anche nel cuore dell’Europa, in Belgio, in Gran Bretagna, con l’esplodere del fenomeno dei foreign fighter e delle jihadi bride.

Quando spiega nei dettagli come si articola il suo grande progetto, Schlaffer parla da scienziato. Mai vorrebbe essere scambiata per una attivista, e ci tiene a rimarcare la differenza. «Un attivista deve seguire le sue sfide ovunque conducano, uno studioso deve essere sicuro di andare nella giusta direzione». La sua è frutto di un lavoro certosino. «Scegliamo prima le aree in cui intervenire. Poi ci appoggiamo, sempre, alle ong preesistenti, dove dei local mobilizer ci aiutano a individuare insegnanti del posto da formare, sempre retribuite, perché il contesto è perennemente di assoluta povertà, e volontarie da seguire: necessariamente con figli conviventi tra i 12 e i 25-26 anni perché quello è il momento da gestire, quando iniziano le crisi adolescenziali ed è più facile cadere nell’ideologia. Quindi prepariamo i manuali, che di volta in volta sono tradotti nella lingua del paese di intervento e adattati al contesto culturale, e partiamo dal training di chi terrà le lezioni, organizzate in gruppi da 15». Durante le settimane di formazione si susseguono interviste con ogni partecipante, tenute da tre professionisti che ci mandano il materiale qui a Vienna e che io e il mio staff analizziamo e riadattiamo. «Spesso di corsi ne teniamo tre o quattro in contemporanea, ed è davvero tanto duro lavoro. Ma per queste madri, e per i loro figli, l’idea dell’adolescenza, e la necessità che i ragazzi siano integrati, degni di essere ascoltati, è dirompente».

Una parte dello sforzo di Edit sta nel reggere 200 sui 365 giorni di un anno in viaggio. «Prendo un aereo dietro l’altro, da decenni. E dire che mi sono perfino concessa il lusso di una famiglia: mio marito Ulrich, il mio amore dei tempi dell’università, è uno psicanalista, viene con noi tutte le volte che i suoi impegni di cattedratico glielo permettono». Dei suoi due figli Rafael, 20 anni, è laureato in Storia moderna a Cambridge, ora in forze all’United States Holocaust Memorial Museum di Washington; Lora, 30, fisica formatasi a Oxford con una buona esperienza nelle strategia di management, è la mente direttiva di Women without Borders, quella che si occupa di organizzare sul campo le risorse: «Non poteva che finire così. Mentre i suoi compagni con i genitori andavano in vacanza a Capri, noi eravamo in Kashmir!», ride Edit. «Negli ultimi tempi stiamo pensando a programmi che coinvolgano tutta la famiglia: la radicalizzazione è più frequente in paesi in cui il padre è spesso assente per ragioni lavorative, magari emigrato. Le Mothers schools lavorano sui figli che restano con le mamme, cercando di allargare i doveri di cura anche a nonni, vicini, altri genitori della comunità». Questo percorso cambia le madri, che poi diventano esse stesse motivatrici, ma anche i padri: «riescono a riconnettersi con figli che altrimenti sarebbero perduti. Immettono energie positive in famiglia. Una volta, a Molenbeek, in Belgio, un padre che aveva perso il figlio maggiore in Siria e che aveva assistito a una lezione con la moglie mi ha confessato di invidiarla: “Lei ha un posto in cui andare, quando si sveglia. Io devo farmi forza per alzarmi, al mattino, e lavorare per il figlio che mi resta. Vorrei imparare a fare davvero il padre”».

«Il nostro è un progetto di stabilità internazionale», chiude Schlaffer, «il contesto attuale è complesso, ma nessuna forza politica può minacciare la stabilità di un paese se i cittadini partecipano. Abbiamo bisogno di creare aiuto, speranza, ottimismo. L’unico passaggio che ancora ci manca è credere che abbiamo il potere e possiamo usarlo. In Europa e negli Usa questo è il momento della sveglia: le crisi possono portare opportunità, e la mobilitazione pubblica di questi mesi non si vedeva da decenni. Chi parte da valori di odio e intolleranza non vincerà. No way, no way, no way».

MISSIONE ITALIA Dopo essere stata invitata due volte a illustrare il suo lavoro alla Camera dei deputati italiani (su invito del presidente Laura Boldrini), Schlaffer sta pensando di espandere anche da noi il suo progetto: «Stiamo cercando di capire se e come organizzare i nostri corsi anche in Italia. Non è terra di foreign fighter, ma la mole di sbarchi nel vostro paese merita attenzione».