Tra maggio e giugno per un’azienda di cui abbiamo seguito e sostenuto la lotta in quest’ultimo anno, la Omsa di Faenza, dovrebbero iniziare le previste procedure di chiusura dello stabilimento e di smantellamento degli impianti. I 356 dipendenti, di cui 320 donne, età media 40 anni, che hanno difeso il posto di lavoro per mesi, presidiando giorno e notte i cancelli della fabbrica, presente da più di 70 anni sul territorio faentino e in cui intere generazioni di donne, all’interno della stessa famiglia, hanno lavorato, ci hanno offerto un esempio di lotta, di forza e di determinazione che non dimenticheremo.
{{Ma niente da fare, si chiude. }}

La proprietà , vale a dire il gruppo Golden Lady della famiglia Grassi, inizialmente aveva addotto la scusa della crisi a motivazione della cessazione dell’attività produttiva, ma in realtà si trattava, si tratta dell’ennesimo caso di {{delocalizzazione}}: un’azienda che decide di chiudere uno stabilimento mentre l’altro, a Mantova, fa gli straordinari, un’azienda con il fatturato in attivo, che detiene il primato di penetrazione del proprio prodotto sul mercato mondiale, “semplicemente” {{si sposta in Serbia}}, dove può pagare un’operaia 300 euro e le tutele sono quasi inesistenti.

Federico Destro, amministratore delegato del gruppo, ha spiegato che sono costretti a risparmiare sul costo della forza lavoro perché si vendono sempre meno calze: {{i materiali sono troppo resistenti, le calze non si rompono e perciò noi donne ne compriamo di meno}}.

E quindi, incredibilmente, un’azienda che spoglia le donne in pubblicità per vendere un prodotto per le donne, che licenzia dopo anni di sfruttamento a 1000 euro al mese altre donne che quelle calze realizzano, ne accusa ancora altre,{{ le donne consumatrici}}, perché non smagliando abbastanza calze sarebbero le responsabili della crisi del settore e quindi della chiusura dello stabilimento faentino.
Davvero non vi sono commenti possibili, se non che siamo di fronte ad un inammissibile e inconcepibile farsa.

Ma forse, partendo dalla vicenda della Omsa, possiamo, oggi, fare qualche riflessione sul lavoro delle donne in Italia…e partiamo proprio dai {{documenti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale}}: l’espressione femminilizzazione del lavoro è entrata a pieno titolo nel linguaggio economico, ma che cosa vuol dire?
Apparentemente esprimeva che le caratteristiche qualificanti, in positivo, del modo delle donne di lavorare in casa, potevano essere trasferite al lavoro salariato modificandone struttura e assetti in meglio: orizzontalità, ascolto, disponibilità, attenzione, investimento emotivo, flessibilità…ma in realtà, in realtà non abbiamo capito fin troppo presto che si tratta solo di sinonimi, per tutte e tutti, di precarietà?

Ed ecco come {{la flessibilità delle donne è diventata precarietà}} {{generalizzata e di genere}}:
_ 1 donna occupata su 5 ha un lavoro temporaneo,
_ il 70% dei lavoratori atipici sono donne con un età dai 18 ai 34 anni e un titolo di studio superiore,
_ tra i 15 e i 24 anni la metà delle giovani donne è precaria e la situazione non migliore a 12 mesi di distanza dal primo contratto,
nella fascia 25 – 34 anni, 1 su 4
_ solo il 14% approda a un contratto a tempo indeterminato,
_ mediamente guadagniamo in un anno l’80% in meno dei colleghi maschi,
_ in alcuni settori le donne costituiscono quasi la maggioranza assoluta degli impiegati, servizi, sanità, istruzione, tessile, ma in posizioni dirigenziali 1 ogni 5…

Questi sono i dati di cui si discute, poi ci sono quelli che fotografano situazioni di cui non parla nessuno, e ci riferiamo agli {{infortuni sul lavoro}}, che colpiscono anche le donne, sempre di più, fino all’incredibile aumento del 30 % in alcuni settori, come il commercio, o del 23% nella sanità o anche del 21% di denuncie in più per quanto riguarda colf e assistenti familiari, che sono per l’80% straniere, con tutte le implicazioni e difficoltà che ben si possono immaginare.

Secondo le {{ultime relazioni pubblicate dall’Istat}}, circa il 27% sul totale degli incidenti sul lavoro colpiscono le donne, pari a 1 su quattro, e il 9% del totale degli incidenti mortali.
_ Le donne invalide per un infortunio sul lavoro o una malattia professionale superano ampiamente quota 100.000.
_ Il 46% di tutti i casi denunciati di infortuni femminili riguardano il tragitto casa- lavoro, ed è un dato su cui riflettere.

Si tratta soprattutto di donne tra i 35 e i 49 anni e quello che nessuno dice è che si tratta di un vero e proprio dramma per la ricaduta immediata che ha sulla vita lavorativa (infatti il 55% di loro abbandona la sede in cui si è verificato l’incidente o perché non è in grado di tornare a svolgere la normale attività, o perché oggetto di discriminazioni da parte dei datori di lavoro, ma soprattutto perché dopo l’infortunio non trova alcuna altra occupazione!) e anche sulla vita familiare: se per l’uomo l’incidente sul lavoro mette in moto una rete di assistenza e solidarietà familiare e di relazioni, per la donna questo è spesso impossibile per la semplice ragione che la cosiddetta rete coincide con chi ne avrebbe bisogno: donna, assisti te stessa!o trovati una badante, così il cerchio si chiude.

Infatti a marzo sul piazzale antistante la Omsa, in piena campagna elettorale, {{Alessandra Servidori}}, PdL e oggi Consigliera Nazionale di Parità, sostenitrice dell’innalzamento dell’età pensionabile per le donne a 67 anni, propone la brillante soluzione di {{reimpiegare le operaie Omsa come baby- sitter o badanti.}}

Occorre essere molto attenti perché il modello economico, culturale e sociale di riferimento di questa grossolana trovata è però estremamente serio:
quanto abbiamo chiaramente davanti agli occhi è la violenza di un sistema economico mondiale che {{devasta }}territori per i suoi progetti di “sviluppo economico”, dighe, autostrade, alta velocità, che {{impone }}programmi economici che hanno ridotto intere popolazioni in uno stato di povertà senza precedenti, che{{ obbliga}} a licenziamenti di massa, a tagli massicci alla spesa pubblica, a privatizzazioni di beni e servizi, che {{commercializza}} le risorse naturali e instaura uno stato permanente di guerra per poter meglio controllare e appropriarsi di interi territori, un processo che si nutre di miseria, di sfruttamento e di repressione, ma soprattutto {{un sistema di folle corsa al profitto}} che oggi pretende pure di farci pagare il conto, ed è salato: assistenza, previdenza e sanità, tutto quel complesso di servizi che chiamiamo “stato sociale” sono oggetto di un attacco consapevole fatto di drastiche riduzioni di spesa e di vere e proprie svendite di servizi pubblici che vorrebbero far passare come inevitabile strategia di uscita, per gli stati nazionali, dalla crisi.

Quello che nessuno mai ha il coraggio di dire è che questa eventualità si concretizza solo stritolando le donne in {{un meccanismo di doppio ricatto}} che si basa su due idee di base molto semplici e molto radicate in un paese come il nostro: la prima, che il nostro lavoro fuori casa, quello salariato, sia del tutto accessorio e non indispensabile, la seconda, che per contare sulla sua continuità, il capitale ha bisogno che via sia una rigida divisione del lavoro e dei ruoli tra uomini e donne.

Se ci si fa caso ogni politica sociale ed economica in Italia ha sempre come implicito rinvio la convinzione incrollabile che gli obblighi domestici e di cura siano comunque compito delle donne.

Se poi consideriamo che il settore dei servizi è quello in cui sono impiegate soprattutto donne, il vantaggio delle ricette anti crisi chi gli organismi economici internazionali premono per introdurre è duplice: si tagliano i rami secchi, si guadagna sulle privatizzazione, e monetizzazione, di una torta davvero appetibile, quella del Welfare, e si rimandano le donne a casa a svolgere gratis tutti quei lavori di cura che lo stato non assicura più ma che comunque sono necessari.

Si tollera che vi sia una percentuale di occupazione femminile, più bassa, che le donne siano più povere e meno tutelate e che per quelle che un impiego ce l’hanno vi sia un’altra donna, migrante, a svolgere il lavoro di cura al posto suo… va da sé che logica conseguenza di tutto questo siano gli incentivi al matrimonio, {{l’ossessione familista,}} l’ingerenza continua sulle scelte di maternità: dobbiamo capirlo bene, il destino che vorrebbero per noi è tutto nella logica della riproduzione, per salvare un sistema che continua a basarsi in larga parte sulla produzione di merci, e se cresciamo bambini bianchi, occidentali e cattolici facciamo pure contenti Lega e Vaticano…

La pianificazione economica e sociale di aggressione alle donne riguarda tutte e tutti, perché va svelata e affrontata radicalmente insieme, perché ha come obiettivo una vita di insicurezza, subordinazione e sfruttamento di donne e uomini, le prime schiave in casa, i secondi schiavi della produzione, perché sposta con l’inganno l’attenzione dal nuovo ordine economico che si sta imponendo, agli effetti devastanti che produce, quasi senza colpa!
Non dobbiamo limitarci a salvaguardare l’esistente, ma rimetterlo in discussione: di fronte a un sistema fondato sulla compatibilità tra produzione di merci e lavoro non salariato delle donne, l’unica risposta possibile è un cambiamento radicale, a partire da un totale rovesciamento dei termini, perché il lavoro delle donne, fuori e dentro casa, non deve essere fattore di controllo e disciplina sociale ed economica.
Nessuna mediazione è più possibile: non solo noi la crisi non la paghiamo, ma, da donne, e compagne, dobbiamo anche aggiungere…

{{e a casa non ci torniamo! }}

{immagine:} da talkbehind.com