Riceviamo da Giancarla Codrignani e pubblichiamo questa lettera alle amiche democratiche (che la pubblicano anche nel loro sito) sulla rappresentatività delle donne in rapporto al processo di formazione del nuovo partito democratico.{{Care amiche le democratiche}}, che le donne non siano una differenza di genere omogenea, ma che si debba tenere conto delle “{{differenze tra noi}}” è risaputo. Tuttavia, non sono sempre chiari i modi con cui le differenze interne al genere debbano pervenire ad una qualche {{unità organizzativa}}, di fronte alla rappresentatività politica di partiti, correnti o “movimenti” rappresentati solo (o soprattutto) da uomini, inventori dell’unico modello competitivo.

Oggi le donne hanno {{due vie per “rappresentarsi”:}}

1) {{accettare l’omologazione}} e, che credano o no di essere “uguali ai maschi”, chiedere il rispetto effettivo della regola aurea della democrazia del 50% (o di congrue “quote”);

2) {{diventare rappresentabili autonomamente}}, per manifesta presenza, autorevole nella diversità, e per forte sostegno femminile in una società fondata sul “modello unico”.

In questo momento è in formazione un partito che si propone di essere “nuovo” e le donne sono fortemente interessate. Non è scomparso il {{rischio}} che le donne non siano attratte dagli interessi di genere, come quando le ideologie inducevano a fidarsi delle promesse dei partiti e a rinunciare alla propria soggettività per “il bene” del paese, definito come tale non da loro. Oggi {{o si accetta l’antipolitica}}, che vuole che, per essere critici contro “questo” governo delle cose, ci si disinteressi; {{o si fa chiarezza del rapporto con le istituzioni}} secondo patti e proposte da mantenere. Chi si impegna a sostenere “la parità” in termini di liste comprendenti nomi alternativamente di “uomini” e “donne” (e, in pari percentuale, di “donne” e “uomini”, per parità anche nei capilista), bisogna che mantenga. Altrimenti il rischio è la defezione femminile dal voto e la riemersione di quella fedeltà politica che assomiglia a quella privata di quante, pur trascurate dal loro uomo, non sanno reagire “per il bene della famiglia”.

Eppure, un partito che si forma con l’idea del “nuovo in politica” ha bisogno del {{contributo specifico delle donne}}. Qualora confrontassimo le priorità politiche per genere scopriremmo cose interessanti anche per i maschi: per noi sono prioritari i {{servizi sociali}} (anche nuovi, come i voucher per integrare – regolarizzando oltre tutto chi lavora in nero – la spesa per gli anziani); per i governi l’optimum sono le {{riduzioni fiscali}} “per le famiglie”. Non abbiamo molto tempo per far capire che quelle delle donne non sono “pretese”, ma “diritti”.

Non sarebbe particolarmente significativa – e, soprattutto, a questo calar di luna, possibile – l’elezione di una donna alla segreteria nazionale del nuovo partito. Ma non vorrei mai – non solo per gli interessi delle donne, ma per quelli del nuovo partito – che, a livello regionale, le donne fossero escluse, a beneficio delle{{ “vecchie” strategie spartitorie}}, che non accetterei più né in Parlamento, né nelle amministrazioni locali, né alla guida degli enti pubblici e privati riservati ai maschi. Se il merito premia, dove ci sono i concorsi (vedi la magistratura), le donne, le elezioni e le nomine alle direzioni dei ministeri e ai consigli di amministrazione di istituti pubblici e privati non possono renderle handicappate.

In realtà le donne non sono valorizzate perché se ne sfruttano le competenze {{senza accettarne il magistero e l’autorità}}. Non interpellate per stilare programmi, partecipare a convegni o tavole rotonde, diventare protagoniste delle discussioni decisionali, professioniste, docenti universitarie o giovani madri precarie (che hanno grosse competenze sociali) non accetteranno candidature di ripiego,
consapevoli di partire svantaggiate e prive di risorse per costruirsi l’immagine che non posseggono (e che non desiderano, se deve essere strumentale). {{L’autonomia rimane scomoda}}.

Quanto a noi, guardiamoci un po’ dentro. Forse {{commettiamo – abbiamo commesso – errori}}: abbiamo creato scuole di pensiero, ma non ci siamo curate delle lavoratrici, delle adolescenti, delle anziane, incapaci di provare passione per l’empowerment; abbiamo chiesto i finanziamenti degli enti locali (ben felici di scaricare un impegno necessario, ma scomodo), ma non ne abbiamo condizionato le politiche; abbiamo criticato i partiti tenendoci fuori dalle loro strutture; abbiamo relazionato male con altri gruppi femminili e femministi per quella competitività poco pregevole fra chi conta poco, non ha mezzi e si divide.

E’ anche per questo che {{non possiamo contare sull’effettiva rappresentatività delle donne già presenti sugli scenari istituzionali}}. Per esemplificare, io mi fido di un’Anna Finocchiaro, ma so che può diventare rappresentativa solo se non la lasciamo sola; allo stesso modo non avrei problemi a votare un uomo come Rodotà, se l’alternativa femminile fosse la
Binetti. Occorrono {{coordinamenti, strategie, misure organizzative}} (farsi carico di reti e di e-mail di livello provinciale, regionale, nazionale) e perfino fund raising, data la dubbia probabilità del mecenatismo femminile.

Tuttavia quello che non è ancora fatto, si potrà fare. La democrazia sta a cuore anche alle donne: è femmina e Lisistrata ne conosceva già modalità interessanti. Quindi, {{un partito di cui sarà segretario un uomo potrà essere anche nostro}} se lo prendiamo in carico e lo talloniamo da vicino per ottenere il rispetto di tutta la nostra dignità. Non dico che cosa penso di un partito berlusconiano presieduto da una donna. Ma dico che i dati di realtà non illudono nessuno, né donna né uomo: se li dovessimo eludere, tanto vale tornare a fare la calza, occupazione che siamo ancora, qua e là, invitate ad assumere (ma ancora una volta pagherebbero un prezzo alto anche i maschi).