Pubblichiamo l’Introduzione a “Senza Paura. Una città da vivere”, incontro organizzato da Geografia di Genere-Consulta delle Cittadine del Comune di Venezia, 3 aprile 2009, Centro culturale Candiani, Mestre.Per parlare del { {{nostro stare in città}} } e della qualità del vivere per prima cosa dobbiamo fare un po’ di silenzio; abbiamo infatti necessità di allontanarci dal rumore assordante della mediatizzazione della paura.

Abbiamo bisogno di {{partire prima di tutto dall’ascolto delle paure e dai sentimenti che ci agitano}}, per riconoscerli dentro di sé e per non esserne in balia; parlarne insieme per affrontarli assieme e costruire una strada di fiducia del nostro convivere.
_ Vi sono esperienze e modelli diversi da quello che ci viene proposto dai pacchetti sicurezza, buoni solo a far crescere la paura e a militarizzare la nostra società, distogliendo lo sguardo dal vero nucleo del problemi: vi sono pratiche in questa città e altrove che parlano della volontà quotidiana di molti e molte di rendere viva e vivibile la città e di una ricerca attiva e creativa di strade di mediazione con altri, con i nuovi e vecchi vicini1.

A questa {{distorta e preoccupante concezione della sicurezza noi vogliamo invece opporre una partecipazione di tutte e di tutti}} alla cura delle relazioni e della qualità della vita in città, che sappia ricreare o alimentare il cuore della collettività urbana.

Anche la violenza sessuale va affrontata con questo sguardo rivolto alla città e alle trasformazioni urbane, soprattutto ribadendo con forza che non si tratta di un problema delle donne bensì dell’intera comunità.
_ È infatti un problema della qualità del vivere, è un problema della città, del suo cuore vivo: interroga innanzitutto cosa oggi è spazio pubblico, che cosa rappresenta e quale relazione intercorre con lo spazio privato.

{{Con che agio noi ci muoviamo fuori e dentro le case?}} Per il nostro gruppo di Geografia di Genere affrontare il tema della città e del nostro starci ha significato partire dalla casa e dal suo immaginario, tracciare i confini reali o interiori tra lo spazio domestico e lo spazio urbano.

{{Che cosa ci aspettiamo dalla casa: la viviamo come un luogo aperto o come un rifugio?}} E che cosa è il fuori? Con che aspettative e desideri guardiamo ciò che sta oltre la porta di casa? Quale relazione intrattiene la casa con la città, quali desideri sanno unire i due territori?

E ancora: {{quale rapporto disegna il nostro corpo con lo spazio pubblico?}} È accolto, respinto, trova luoghi in cui sostare, incontrare, aprirsi. Come camminiamo di giorno e soprattutto di notte? Con passo tranquillo o ci guardiamo alle spalle?

Forse rispetto al passato le soglie tra lo spazio pubblico e quello domestico si sono fatte più sensibili, i confini delle nostre case sembrano essere divenuti più rigidi, i muri più spessi.
_ Eppure la qualità della vita all’interno delle nostre mura domestiche non è al riparo dalla violenza, come ben sappiamo.
_ Questa percezione fa perno con la realtà ma anche con l’immaginario della relazione tra ciò che è fuori e ciò che è dentro le case; probabilmente dipende da quanto sentiamo di appartenere a ciascuna di queste dimensioni e soprattutto dal maggiore o minore agio con cui ci muoviamo in esse.

Provo dunque a soffermarmi su questo rapporto.
{{L’agio femminile di muoversi in città è prima di tutto indicatore della qualità dei rapporti tra uomini e donne}}, del grado di loro civiltà, ma sa anche essere indicatore del benessere collettivo: è in grado infatti di parlarci anche dell’agio dei bambini, degli anziani, degli stranieri, delle categorie più deboli di cittadini, direbbero i sociologi, noi preferiamo dire di coloro che esprimono differenze rispetto all’immagine tradizionale di un cittadino ‘neutro’.
_ {{L’agio femminile di muoversi in città sta dunque al cuore della pienezza della cittadinanza}}.

Potremo dire che questa differenza sa rappresentare anche i bisogni di altre differenze e indicare percorsi di vivibilità (ad esempio: la tranquillità di fare la spesa, portare i bambini al parco, camminare e andare al cinema la sera, entrare in un bar da sole la notte, avere a una distanza accettabile tra la casa, la sede di lavoro e i servizi essenziali, ecc.).

{{L’agio femminile inoltre parla della qualità dello spazio pubblico}}: dove vi sono relazioni forti tra uomini e donne, relazioni di cura e di bellezza dei luoghi grazie alla partecipazione, alla condivisione, ci sarà fiducia nella possibilità di convivenza e meno paura. Dove c’è attenzione di tutti, è più difficile che avvengano violenze e abusi. Come si vede è assai riduttivo fare della paura e della vita in città un problema solo di ordine pubblico.

C’è poi un aspetto più peculiare: il corpo femminile ha intrattenuto con gli spazi pubblici e con la scena politica una storia particolare, a seconda dei contesti storici: è un corpo che è stato sovente ostaggio, tenuto sotto controllo, minacciato dalla sessualità maschile, per molto assente o poco visibile; tuttavia non in maniera così continuativa come spesso ci viene tramandato.

Ci sono stati periodi storici in cui le donne avevano maggiore visibilità e protagonismo, e per lo più l’andare e venire quotidiano delle donne in città (pensiamo ai mercati, ai pozzi, ai lavatoi, a molti lavori artigiani) è rimasto una costante nel tempo, come un suono di basso continuo.

La presenza delle donne negli spazi pubblici inoltre è stata ed è strettamente connessa con l’elaborazione degli uomini e delle donne su questo tema e sul significato dello spazio sociale.

L’aggressione e la violenza sulle donne rientrano nei comportamenti da sempre presi in considerazione dagli statuti cittadini, dalle norme giuridiche, dai patteggiamenti penali: a seconda del patrimonio di dibattito esistente anche tra gli uomini e le donne, essi venivano accettati o, al contrario, giudicati violenti e trasgressivi dell’ordine comune, e respinti come pericolosi per lo spirito stesso della convivenza.
{{
La modalità con cui il corpo femminile sta nello spazio pubblico non è affatto un a-priori storico ma è un tema culturale}}.

Sulla violenza sessuale si è sedimentata una storia complessa e i diversi approcci e le diverse tematizzazioni dipendono anche dalla presenza o meno della presa di parola delle donne su questo.

{{Letizia Paolozzi}}, proprio a proposito dei commenti sui recenti casi di violenza sessuale, ha osservato che c’è stato un cambiamento nel contenuto e nelle forme del discorso: una volta, ha scritto, si sarebbe detto: “se l’è cercata”, oggi ci troviamo di fronte invece “a un paese dove la televisione, i giornali pieni di interviste, i commenti, le prese di posizione di politici, di amministratori, del ceto intellettuale si rendono conto dell’obbrobrio. E solidarizzano, nonostante la stortura dei messaggi. Anni fa questa solidarietà non l’avremmo sentita.
Non assisteremmo a un simile cambiamento senza il femminismo degli anni ’70”.

Ciò che ci viene nascosto dal clamore dei media è invece il declino attuale dello spazio pubblico, l’impoverimento della sfera pubblica: vengono meno i luoghi simbolici nei quali identificarsi e che sono cruciali perché possa esistere o nascere un sentimento di appartenenza, o almeno di integrazione con il luogo in cui si vive; abbiamo ora meno luoghi di incontro, di dibattito, di scambio. L

{{La vita pubblica sembra esaurirsi nel consumo, nei suoi riti e in un tempo libero, povero di socialità}}. L’urbanizzazione svuota la vita del quartiere, crea indefinite periferie: luoghi non di sosta ma di transito. Tra le case e i luoghi di lavoro e di consumo si transita. La città è assai di più di un insieme di case, richiede una poliedricità di spazi pubblici: luoghi e spazi in cui nutrirsi di bellezza, verde, cultura, spiritualità, silenzio o mescolanza.

{{Certamente c’è necessità di un grande lavoro di rinegoziazione dei nostri luoghi simbolici,}} del loro significato e di creazione di nuovi spazi, anche con i nuovi cittadini, lavoro a cui non possiamo sottrarci. La soluzione, anche per gli stranieri, non può essere un agglomerato di isole separate, di ghetti o cittadelle, di luoghi segnati da appartenenze ‘etniche’ rendendo il resto, quello che dovrebbe essere spazio comune, invece terra di nessuno.

{{Più sentiamo il disagio più cresce la tendenza a ritirarsi dai luoghi esterni, dalla scena pubblica}}; così si crea un vuoto e si alimenta la paura che va a riconfermare paure già presenti.
_ Meno intrecciamo relazioni, più spegniamo la curiosità verso gli altri e le altre, gli sconosciuti, più accuseremo qualcuno e cercheremo un nemico e lo si creerà davvero, come sta succedendo in parte. Così renderemo le nostre città dei luoghi ostili, anche a noi stessi.

L’altro rischio che forse è già in parte una realtà, è che soprattutto le donne applichino un'{{autolimitazione della propria libertà di movimento, per la percezione di paura}}.
_ Vi ricordate lo slogan: {la notte ci piace vogliamo uscire in pace?}.

In un testo di riflessione sulla paura in città ho scritto che in quegli anni, gli anni ’70, sentivo il mio corpo inviolabile, forte e splendente e che non avevo paura a girare da sola a Padova. Era come se un corteo di donne fosse sempre al mio fianco. Lo stare a mio agio nelle piazze e nelle strade era legato al mio sentirmi a mio agio nello spazio pubblico, dal mio vivermi come una protagonista in città, non da sola ma attraverso una relazione collettiva che investiva la città, e, in una rete significativa, ogni città.

Ho letto recentemente molte affermazioni simili da parte di altre donne.
{{Giordana Masotto}} ha scritto: “Anche negli anni ’70 non mi sentivo fisicamente insicura. Camminavo a notte fonda nelle vie di Milano, dopo quelle riunioni di donne, lunghe lunghe, e tornavo a casa piena di pensieri e di emozioni. Radiante. Non ci pensavo quasi mai, ma avevo la sensazione che fossimo padrone delle strade, che niente ci avrebbe colpito. Prendendo la parola con le altre donne, mi stavo riappropriando di uno spazio interno e credo fosse questo che mi/ci faceva sentire inviolabili”.

Chiediamoci ora chi c’è in piazza la sera, la notte nei nostri centri urbani, nelle strade, nei parchi, nei giardini?
_ Spesso vi sono branchi di uomini soli, disancorati, sradicati, carichi di umiliazione, in spazi vuoti di cittadini.
_ Dove siamo, dove rendiamo vivi i luoghi, animati come anni fa, è facile o più facile arginare la violenza. Il problema è dunque la nostra vita sociale, che è divenuta ora più ristretta; lo scambio si è fatto più limitato. E non pare solo una questione generazionale e legata all’età, quella nostra, che ci fa preferire, forse più di un tempo, lo stare maggiormente a casa.

L’altro nucleo di problemi sottaciuti dai media riguarda l’antico nesso sessualità maschile-potere-violenza. Tuttavia anche in questo caso il panorama si è increspato. “E allora piantiamola una buona volta di parlare di “violenza sulle donne” e cominciamo a dire “violenza degli uomini””.
_ Così si è espresso {{Marco Deriu}}, sociologo dell´Università di Parma, firmatario dell´appello La violenza sulle donne ci riguarda e membro dell’associazione [Maschileplurale->http://www.maschileplurale.it].
_ L’analisi di Deriu punta al cuore delle relazioni odierne: “oggi i legami tra donne e uomini, compresi quelli famigliari, si fondano in misura molto più rilevante sulla capacità di comunicazione e comprensione reciproca, su rapporti di intimità, sulla fiducia e sul rispetto, sulla disponibilità al dialogo e sull’adattamento reciproco, sull’intesa emozionale. In altre parole il rapporto di coppia non è dato una volta per tutte ma è frutto di un dialogo, di una contrattazione, di un’intesa e di una fiducia che va costantemente riaffermata.
_ A fianco di una violenza più di tipo “tradizionale” che colpisce soprattutto donne in situazione di marginalità sociale, oggi registriamo anche una violenza che sembra nascere invece dall’incapacità da parte degli uomini di accettare e accogliere un’autonomia e una libertà già entrate nella vita di molte donne. In questo scacco – e nel conseguente senso di “impotenza” verso l’autonomia e la libertà femminile – emerge tutta la dipendenza, la fragilità e l’insicurezza nascosta degli uomini”.

Dunque tutto ciò ci segnala una libertà conquistata dalle donne e che bisogna saper riconoscere, uscendo da una prospettiva di solo vittimismo.
{{Mariuccia Ciotta}} in un articolo sul «Manifesto» ha scritto:“ Il terremoto a cui assistiamo, politico, economico, sociale, è riconducibile tutto al protagonismo dello sguardo femminile che non è lì a chiedere più clemenza agli uomini ma a mettere a soqquadro l’ordine maschile. La paura della perdita di controllo sulle donne scivola nel panico da mancanza di identità culturale e nazionale e moltiplica la violenza sul corpo-simbolo, che sia Eluana o la ragazza per strada e in famiglia o la pensione”.

Non è una libertà senza ambiguità e contraddizioni ma è davanti ai nostri occhi: “Oggi le donne sono più libere – ha scritto {{Letizia Paolozzi}} -. E alcuni uomini non lo accettano. Da qui la gamma di violenze che vanno dal ceffone all’omicidio. Come tutti i cambiamenti ha i suoi lati oscuri. Giacché l’autonomia che le donne oggi possiedono significa non solo lavorare, andare a ballare, viaggiare da sola ma anche sognare il mestiere di velina, la apparizione al Grande Fratello, il contratto da signorina tette-al-vento”.

Questo protagonismo femminile crea dunque reazioni di diverso genere, non ultima la rabbia.
_ Come si può disarmare la rabbia maschile? prima di tutto dal di dentro, da parte degli stessi uomini attraverso la loro riflessione che sappia liberare la loro sessualità, e il loro eros dall’appiattimento sul linguaggio del dominio: c’è bisogno di un percorso di alfabetizzazione dei sentimenti e della sessualità.

Ma la fragilità degli uomini suggerisce anche di accogliere e fare preziosa la parola fragilità nelle nostre relazioni, nella nostra sfera pubblica oltre che privata, di farne una cifra essenziale per fondare o rifondare la nostra convivenza, per venirci incontro tra uomini e donne. Se la violenza sessuale non è un problema delle donne credo che bisognerà fare tutti e tutte un passo avanti e ammettere che la violenza sessuale non è neppure un problema solo degli uomini ma è un problema nostro e dei nostri rapporti.