Quattro giorni in Senegal -quasi più brevi del viaggio per arrivarci
-non cambiano la vita, anche perché oggi i senegalesi sono migranti
tra noi e non importa più raccontare chi sono. Quindi sorvolo sulla
bellezza delle donne nelle loro vesti regali e passo a raccontare da
un luogo ravvicinato l’esperienza del progetto Il premio Nobel per le donne africane.Ovviamente non ero disinformata – faccio parte dell’ong Cipsi
promotrice della proposta Nobel – ma ero partita con un interrogativo
“chi mai andrà a Stoccolma a ritirare il premio per “le donne
africane”, intese ovviamente come soggetto collettivo?”.

Al ritorno
l’interrogativo resta, ma non importa più; ne conviene perfino
l’ambasciatore Aloisi che rappresentava la Fondazione Levi Montalcini:
quello che conta è lavorare per far conoscere il progetto e riprendere
a parlarne a partire dal continente in cui è più visibile la necessità
che le donne entrino in tutte le strutture a modificare le diverse
situazioni, attraversando i conflitti con l’autorevolezza di un
soggetto che può impedire le degenerazioni violente e le guerre.

Anche gli interventi maschili hanno sostenuto l’obiettivo della
campagna, mettendo in rilievo le contraddizioni della condizione di
donne che rappresentano il 90 % in agricoltura e nel commercio mentre
non hanno diritti di proprietà.
_ Abubakar Fall, ricordando i 50 anni di
indipendenza del paese e gli entusiasmi di allora, ritiene che ci sia
un’Africa “da ricostruire decostruendo”: sopravvivono latenti le
conseguenze della Conferenza di Berlino (1885) e proseguono guerre e
conflitti, crisi economiche e ambientali, corruzione e dipendenza.
Solo con leadership femminili si può sperare di smettere di cercare
soluzioni violente ai conflitti: “solo le donne superano le
frontiere”.

La rappresentante dell’Associazione delle donne giuriste
metteva il dito sulla piaga della Costituzione e dei diritti di
uguaglianza poco rispettati e auspicava l’applicazione delle
convenzioni già ratificate e la ratifica delle norme internazionali
sui diritti femminili, mentre la capodivisione del Ministero della
famiglia sottolineava l’impegno istituzionale favorevole
all’emancipazione, a partire dall’educazione inclusiva, dalla
formazione e dalla tutela.
_ Mina Tafnout confermava, riferendo
l’esperienza delle lotte in Marocco per cambiare il diritto di
famiglia, l’importanza di un impegno organizzato che faccia leva su
quattro piani – sociologico, giuridico, dei diritti umani, delle
tradizioni locali – ma che, poi, conti sul coinvolgimento delle donne
in tutte le possibili mobilitazioni pubbliche, di pressione e anche di
fantasia soggettiva, orientate a pretendere uguaglianza di diritti, a
prevenire la violenza, a valorizzare la cultura di genere.

La storia
dell’Africa è tessuta di lotte femminili, a partire dalle antiche
regine (Anuna del Niger, Kassa del Mali, Anne Zingha dell’Angola…) e
dalle ribelli nel tempo della servitù coloniale e ancor oggi (fu il
caso di una domestica di padroni francesi l’inizio della rivolta
autonomista della Casamance), ma – diceva Sylvie Serbin – occorre
pensare al nostro tempo, alla democrazia, all’esplodere delle
famiglie.

Sono le donne coraggiose che portano l’Africa sulle loro
spalle, élite e popolo, laureate in Usa e contadine, manager (mi ha
impressionata un cartoncino a colori plastificato con la pubblicità di
un’agenzia di consulenza di cui è direttrice generale una donna) e
organizzatrici di cooperative o di “tontine” (il microcredito
originario, solo femminile).

I temi si moltiplicano: la scrittrice
Fatoumata Kam Ki Zerbo ha fiducia nell’evoluzione del costume ad opera
delle donne, anche se l’emancipazione subirà i condizionamenti della
perdurante tradizione sessista.
_ Femminile sarà il ruolo economico in
un nuovo approccio allo sviluppo (sono già le donne le principali
attrici contro la desertificazione, l’Aids, le malattie…), ma resta
difficile fare “opposizione trasversale in tutti i settori”, anche
perché le donne del Nord e del Sud non sono ancora in grado di fare
sororità… Ovviamente non sono state dimenticati i problemi della
presenza nella cultura (narrativa, teatro, poesia griot, ma anche
nuove tecnologie), delle donne con handicap (che immagino tutelate
dalla legge “di orientamento sociale” come testimonia la
rappresentante di Dakar, ma meno seguite nei villaggi) e, in
particolare, della “diaspora”.

Ne ha parlato un’eritrea, Elisa Kidané,
anche perché significa parlare di donne di cui è difficile parlare nel
loro paese, per le tante che sono prostitute e, se non annegano nel
Mediterraneo, annegano nella tratta degli sfruttatori. In ogni caso,
da tutti gli interventi, usciva la determinazione a sentire
l’importanza di dare valore al “genere” femminile come pilastro
sociale primario nell’insieme delle differenze: l’ Africa che per il
50 % è l’Africa della povertà totale non può fare a meno della
presenza responsabile delle donne che “hanno disposizione per
costruire la vita”.

Il Nobel? Certo, presenta dubbi e speranze; ma è, in primo luogo, “un
lievito”. Come diceva lo slogan, {Elles le merite}.

Non voglio deprimere il “racconto” aggiungendo lo sconforto di essermi
risparmiata l’ironia dei senegalesi per l’indecorosa vergogna che
ricade sul nostro paese (possibile che sia “questo” il costume
italico?).
_ Anzi, come donna, voglio partire dal positivo e rallegrarmi
per Susanna Camusso, un’altra che “merita”…..