Il senso della comunità come luogo conflittuale ma pacifico, trasformativo in senso evolutivo e inclusivo è assente dal linguaggio e dell’immaginario, nella politica, che dovrebbe essere di esempio, guida e ispirazione: come, quindi, la pratica dei rapporti collettivi e individuali potrebbe essere meno violenta della fantasia aggressiva che abita le menti, informa l’educazione, permea la politica e tracima dai media?Vi racconto un episodio che mi è capitato qualche giorno fa, nel pomeriggio di un giorno qualunque, in tempi di ‘pace’, così si dice.
Sono a fare il gas per l’auto, scendo perché i cartelli dicono che è pericoloso e quindi è vietato stare in macchina mentre si fa il pieno.

Ci sono, negli spazi accanto a me, altre due vetture, in attesa che il gestore attacchi o stacchi la pompa del rifornimento. Distrattamente mi guardo in giro, e noto che siamo tre donne in quel momento presenti lì, e che una nuova macchina sta arrivando. In questa c’è un uomo sulla quarantina alla guida, con accanto una donna dai tratti asiatici più giovane; dietro di loro un bambino sui sette anni, chiaramente figlio della donna.

Avverto che c’è tensione tra l’uomo appena arrivato e il gestore, che gli dice qualcosa che non sento, poi capisco dal primo battibecco che l’uomo alla guida non vuole scendere e far uscire la donna e il bambino.
Finalmente il conducente della macchina esce, e a voce alta ‘invita’ il gestore a ‘non rompergli i coglioni”.
Segue una (a quel punto prevedibile) escalation di insulti tra i due uomini, a voce sempre più alta, davanti al bambino e alla madre: il consueto scambio a furia di ‘non rompermi i , che cazzo vuoi, chi cazzo sei’.

Mentre ancora non si va oltre le parole chiedo al gestore, che finalmente ha staccato la pompa dalla mia vettura, se posso avere una ricevuta, e mentre il conducente continua a insultare il gestore per non avergli ancora attaccato la vettura al gas mi avvio verso il gabbiotto con il gestore per pagare e ritirare lo scontrino.

E’ a quel punto che una frase di troppo fa scattare la reazione fin qui tenuta a bada del gestore, che con uno scatto di rabbia risponde al conducente dicendogli, (svelando che si conoscono): “Stefano ora te ne vai perché io il gas non te lo faccio.”
Stefano reagisce, urla ancora più forte, dice che nessuno si può permettere di trattarlo così, lui ora chiama i carabinieri. Armeggia con il cellulare evidenziando che fa sul serio mentre il gestore ed io gli passiamo davanti. A quel punto c’è un primo contatto fisico: il conducente si avvicina al corpo del gestore e gli si butta contro, a pochi metri da me, con il classico movimento visto spesso nei documentari del National Geografic. I due maschi (di ogni specie) che si fronteggiano, e uno dà il colpo di petto sull’altro, a mo’ di intimidazione, per marcare il territorio e far tornare al più miti consigli il rivale.
Ma questo non è un documentario, e questi son maschi umani, e la natura non c’entra.
Allo spintone il gestore ancora non reagisce, si allontana con me che sono vicinissima ai due, mentre l’altro, ormai fuori controllo, sta urlando ‘ti spacco la faccia’: in qualche modo entro con il gestore nel gabbiotto, e sento con chiarezza che non può finire lì.

L’aria si fa tesa e impregnata di energia negativa, e mentre io sto da un lato del gabbiotto in attesa della famosa ricevuta il gestore scatta fuori dall’ufficio in fondo al gabbiotto con una sbarra di ferro che nascondeva sotto la scrivania alla quale era andato per fare il mio scontrino.
“Mi vuoi rompere la faccia? Allora vediamo, urla.”

In un lampo Stefano e il gestore sono aggrovigliati in un corpo a corpo.
Dopo i primissimi istanti di paralisi mi sposto dall’angolo nel quale mi trovavo, comincio a urlare che chiamo la polizia, e vedendo che le mie urla non hanno alcun effetto prendo la decisione e mi faccio avanti, dicendo a voce alta cose come: “fermatevi, chiamo la polizia”.

Mi avvicino ai due che in rapidissima successione, avvinghiandosi per la conquista del bastone di ferro, si sono spostati sempre di più verso il fondo del gabbiotto, fino ad addossarsi ad una parete.
Il silenzio, a parte le mie urla che ormai sono un inutile mantra a cadenza regolare, è inquietante. I due stanno trattenendo il respiro mentre lottano per il controllo dell’arma improvvisata e pericolosa, e come in un film ora uno ora l’altro sembrano avere la meglio.
A quel punto anche le donne delle altre due vetture, più la madre e il bambino sono entrate dentro il gabbiotto.

Il piccolo in sottofondo singhiozza piano, e tra i singulti soffocati sento che dice: “Non voglio perdere il mio papà”. Ripete la frase in continuazione ed è lì che entro in modalità G8. Quel suono mi fa decidere che se non faccio qualcosa subito sarà finita, perché nel momento in cui uno dei due riesce a impossessarsi del bastone dire che qualcuno si farà male è un pietoso eufemismo, data la quantità di testosterone che si sta sprigionando.

Così consumo i pochi passi che mi separano dal duo avvinghiato, e benedicendo la mia dotazione pettorale mi puntello bene sulle gambe e mi appoggio al corpo di Stefano, che ho davanti, appoggio le mani sulle sue spalle, cerco il suo sguardo e comincio a dire in loop, premendo con le dita perché mi senta e si distragga dalla tensione della lotta: ”C’è il bambino, si fermi”.

Sono a pochi centimetri dalla sua faccia, che ha un colorito cinereo; nonostante sia vicinissima e abbia infranto la distanza che si norma si tiene con il corpo dell’altro lui non mi guarda, non sente né la voce né il tocco, che ora è forte. I suoi occhi sono assenti, sembra impenetrabile, chiuso nella bolla maligna della sua rabbia.
Riesco a trovare un varco, sfruttando il peso e forse la morsa meno forte da parte del gestore, il che favorisce l’ingresso parziale del mio corpo tra i due; sposto le mani dalle spalle di Stefano e le metto decisamente sul bastone, mentre il mio petto è riuscito a farsi spazio tra i corpi dei due uomini, che ora non sono più avvinghiati.
Alzo molto la voce e quasi urlando dico: “Ora basta, il bambino sta male, al mio tre il bastone lo tengo io, capito?”

Il gestore mi guarda, vedo che sta valutando la situazione pur sempre tenendo salda la presa, è meno drogato di rabbia, e l’effetto sorpresa per questa mossa riesce a raggiungere anche Stefano, che sposta lo sguardo su di me e dice: “E mio figlio”.
Il mio cervello registra la frase, densa di una storia che non voglio nemmeno immaginare, e ripeto l’avvertimento, conto fino a tre e il bastone è nelle mie mani.
Salto lontana dai due, che si addossano su due pareti distinte, mentre la madre del bambino si avvicina al compagno e cerca di portarlo fuori.
Io mi libero del bastone, nascondendolo in un anfratto del muro, e cerco di sorridere al bambino a cui nessuno sta badando.

Ora la situazione è questa: di nuovo fuori dal gabbiotto Stefano sta chiamando i carabinieri sostenendo che è stato aggredito con un bastone di ferro, che suo figlio è sotto shock e che ha molti testimoni, guardandomi con insistenza.
Vado dalla donna asiatica, in preda anche io finalmente ad un attacco di adrenalina che non mi mollerà fino al giorno dopo, e le chiedo: ”Scusi, ma lo fa spesso?”

Lei si fa ancora più piccola di quanto già sia, balbetta che non ha capito cosa sia successo, che il gestore non voleva fargli il pieno, e capisco che non è la prima volta. Ha negli occhi la rassegnazione di chi non è nuova a quella situazione. Del resto la frase del bambino non è casuale: la paura di perdere il padre non si palesa così all’improvviso, a meno di non essere stato già altre volte davanti a eventi simili.
Un caso di violenza assistita, e chissà se anche a casa è così.

Vado dal gestore, che ha fatto la ricevuta, gli chiedo sottovoce se me ne posso andare, se è sicuro che non ci sia un secondo round, mentre sento che Stefano dice che a breve arrivano i carabinieri, che devo fermarmi per testimoniare: è fermamente sicuro di avere ragione, non ha dubbi, nella sua visione delle cose io sono il suo asso nella manica.
Lo guardo mentre vado decisa verso la macchina: lui ha ancora gli occhi spiritati.
“Mi sembra di aver fatto abbastanza”, dico.

Metto in modo, mi allontano dalla stazione di servizio, vedo le altre due donne che stanno facendo lo stesso, mentre altre auto entrano nell’impianto.
Tutto si è svolto in pochi minuti, un set di brutalità, miseria umana, violenza e incapacità di comunicazione che non si è trasformata in cronaca nera perché una donna di mezza età in parte si è messa in pericolo e in parte ha fatto l’unica cosa possibile interponendosi.

Ma la certezza è che tutto questo meccanismo malato si è solo spostato altrove; qui nessuno ha imparato nulla, non esiste un terreno fertile sul quale le ragioni e le emozioni della cultura delle relazioni possano attecchire.

La desertificazione dei rapporti, del senso del limite, della civiltà che ho visto incarnata dai due uomini è il terreno diffuso, maggioritario, sopportato, tollerato e spesso invocato e reso valore accettabile in questo paese: qui un movimento politico di grande impatto ha un leader seguitissimo che indice manifestazioni di massa all’insegna del vaffa, e fonda la sua vis polemica sull’insulto urlato e acclamato, mentre dall’altra parte la metafora politica usata da un più compassato capo del governo per descrivere lo spirito che guidava il ritiro dei ministri è quella sportiva dello spogliatoio (‘facciamo spogliatoio’, disse Letta mesi fa annunciando il week end dove il nuovo esecutivo si riunì per fare conoscenza).

Il senso della comunità come luogo conflittuale ma pacifico, trasformativo in senso evolutivo e inclusivo è assente dal linguaggio e dell’immaginario, nella politica, che dovrebbe essere di esempio, guida e ispirazione: come, quindi, la pratica dei rapporti collettivi e individuali potrebbe essere meno violenta della fantasia aggressiva che abita le menti, informa l’educazione, permea la politica e tracima dai media?