Lo io narrante è una donna, una ragazzina, poi una ragazza, lui, lo scrittore, è un giovane uomo. Lo io narrante ha la pelle nera e, a un certo punto, fugge dall’Africa, dalla Somalia, per raggiungere l’Italia. Intraprende il Viaggio, con la v maiuscola e muore nel Mediterraneo. Chi racconta è una ragazza che corre, con le gambe di gazzella, e sogna le Olimpiadi, ma anche la liberazione del suo Paese e delle donne dall’oppressione dell’integralismo islamico. Lui, lo scrittore, è figlio di emigranti meridionali, Una “seconda generazione”, come si dice e si scrive dei figli dei migranti arrivati in Italia bambine e bambini nati sul suolo italiano. “Non dirmi che hai paura ” è stato scritto da Giuseppe Catozzella (ed. Feltrinelli, 2014) che non è al suo primo libro. Il volto che appare nella foto sul libro, è quello di un ragazzo timido che forse non si vanta neppure se ha scritto un bellissimo, poetico racconto della vita di Samia, ragazzina di Mogadiscio con la passione della corsa. “La mattina che io e Alì siamo diventati fratelli faceva un caldo da morire e stavamo riparati sotto l’ombra stretta di un’acacia. Era venerdì, il giorno della festa.” Inizia così la “biografia” della musulmana Samia narrata da Giuseppe, che per mesi si è documentato sulla sua storia, anche intervistando la sorella che, il Viaggio, lo aveva intrapreso prima raggiungendo Lampedusa e poi la Finlandia dove è nata la figlia che ora corre come la zia, sognando le Olimpiadi. Il Viaggio, con la v maiuscola, è quello che affrontano i tanti e le tante persone che cercano un futuro, spesso fuggendo dalle guerre, e un altro destino in Europa. Un Viaggio attraverso i deserti dell’Africa, le città e i villaggi, su e giù da camion e da jeep, pagando i trafficanti di esseri umani uno, due tre o infinite volte, prima di raggiungere le coste africane dalle quali imbarcarsi su trabiccoli insicuri. Samia è affogata, con il sogno del Viaggio quasi realizzato nel cuore e negli occhi, a poche miglia dalla Sicilia nel 2012. Il libro è di quelli che dovrebbero leggere gli italiani e le italiane che urlano e sbraitano allo scandalo quando un barcone approda sulle coste, senza nulla voler sapere e definendo, sempre, con un solo significante le tragedie umane: clandestini. Perché Giuseppe si è identificato nella giovane somala? Non è oltremodo difficile, per un maschio, pensare e provare sentimenti ed emozioni al femminile? A metà degli anni settanta, l’anno e il mese della morte di Mao in Cina, di ritorno a Bari, dopo l’attraversata dell’Adriatico, da un breve tour in Jugoslavia, io e altre tre, raggiungemmo il paese della Lucania dove l’ebreo antifascista Carlo Levi sostò prima di raggiungere Eboli, il confino definitivo impostogli dal regime fascista. Un paesino, Grassano, costruito in alto, sulle colline; bello nelle sue case tutte antiche. La zia di Giuseppe, una di noi quattro ragazze, ci portò a dormire nella piccola, caratteristica casa della sua numerosa famiglia di origine. Visitammo, durante la giornata, la dimora borghese, dove alcune signore ancora viventi, aveva ospitato Levi. La mattina presto ci preparammo a riprendere il viaggio verso il Nord, luogo anche dell’emigrazione della zia e dei suoi fratelli e sorelle. Una vecchia signora amica di famiglia si affacciò presto al portoncino già aperto della casa, con il regalo di una grande frittata di peperoncini rossi. Le descrizioni della zona di Mogadiscio dove Samia cresce nella sua famiglia allargata, mi hanno riportato alla memoria quell’episodio e il paesino di Grassano della Lucania spopolato dai “Viaggi” verso la Germania e il Italia settentrionale. “La nostra casa non era una casa nel senso normale del termine, come possono essere quelle belle, con tutte le comodità. Era piccola, piccolissima. E ci vivevamo in due famiglie, la nostra di Alì, dentro lo stesso cortile, recintato da un muricciolo d’argilla. Chissà quante volte Giuseppe ha ascoltato sua madre e la zia raccontare la vita nella piccola casa di Grassano e della solidarietà tra vicini. Il libro di Giuseppe corre il rischio di essere oggetto di presentazioni, improprie, a uso del terzomondismo nostrano, con domande generalissime sull’emigrazione in stile political correct. Bisognerebbe invece dedicarsi a un commento virato sul genere: Samia è una bambina e poi una giovane appartenente a un mondo a noi estraneo e da capire invece nei tanti risvolti etnici e politici. E sarebbe giusto far risaltare la bellezza stilistica, letteraria, del racconto di Catozzella. Samia viveva nella parte della Somalia occupata dagli integralisti islamici che impongono alle donne il velo e la copertura totale del corpo. Perché il corpo delle donne è possesso maschile e simbolo del potere sulle famiglie e sui territori. Se le donne smettano di provare il sentimento del pudore e pretendono di uscire dai recinti, macchiano irreparabilmente l’onore degli uomini e li espongono al giudizio di mancanza di virilità. Le donne sono marchiate dal loro sesso, per sempre, come esseri inferiori. Aabe però era diverso dagli altri musulmani fondamentalisti. Aabe, che sta per padre, le diceva :” Un giorno guiderai la liberazione delle donne somale dalla schiavitù in cui gli uomini le hanno poste. Sarai la loro guida, piccola guerriera mia. Ogni volta che ho corso, da quel giorno in poi, ho ingoiato metro su metro masticando queste parole salvifiche di mio padre, le parole di Yusuf Omar Nur, figlio di Omar Nur Mohamed. La liberazione del mio popolo e delle donne dell’Islam.” Ecco perché dovrebbero essere dei maschi come Giuseppe, o delle donne, a raccontare e commentare, o a fargli le domande. Samia corre, corre sulle strade polverose, negli stadi somali quando non c’è più nessuno e può togliersi il velo. Mangia polvere e paura accompagnata, inizialmente, da un compagno di giochi che le fa da allenatore. Samia corre anche senza l’amico allenatore che è fuggito dalla guerra somala: ha scelto, prima di lei, il Viaggio. “E comunque, Alì si era sempre dato tante arie, ma era più lento di me, anche se era un maschio. Era più forte, se facevamo la lotta mi batteva, ma era più lento. Quando voleva farmi arrabbiare diceva che ero una wiilo, un maschiaccio, ed era solo per questo che correvo più veloce. Diceva che ero un ragazzo nato dentro il corpo di una femmina, che avevo il moccio al naso proprio come i maschi, e ce da grande mi sarebbero cresciuti i baffi come a suo padre, aabe Yassin. E io lo sapevo, non c’era bisogno che me lo dicesse lui, che ero un maschiaccio e che la gente quando mi vedeva correre senza i veli, senza il qamar e l’hijab,solo con una maglietta più grande di me e i pantaloncini, e io dentro magra come u ramoscello d’ulivo, pensava che non fossi una perfetta figlia del Corano.” Alì, il ragazzino allenatore e amico, è figlio di una cultura maschilista che lo scrittore capisce e descrive: conferendo alla protagonista della sua narrazione il profilo, forte, deciso, tenace delle donne che puntano orgogliosamente al riconoscimento della soggettività femminile e a realizzare un sogno. Gli integralisti vietano la musica, nelle strade e nelle case. Così interpretano il Corano. Chiudono i cinema e obbligano gli uomini a vestire pantaloni lunghi: “Alle donne, poi. Alle donne non era più consentito fare niente, rischiavano a camminare per strada. Provarci senza burqa era un azzardo che poteva costare la vita.“ Giuseppe si sofferma sull’andamento della tragica guerra interna alla Somalia che mutila le famiglie dei suoi membri, come il padre di Samia che verrà prima ferito e poi ucciso. Hodan, la sorella amata che canta le sue canzoni, fugge abbandonandosi nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Samia va a Pechino, alle Olimpiadi e arriva ultima. Alle Olimpiadi lei veste con il solito completo portafortuna. Una maglietta bianca lavata dalla madre e i fouseaux neri che arrivavano sotto il ginocchio. In testa la fascia bianca che il padre le aveva regalato tanti anni prima. La sua corsa davanti a milioni di persone che la guardano anche alla Tv, è descritta lentamente, minuziosamente in pagine su pagine. Si era battuta , a diciassette anni, con la sua magrezza da mancanza di cibo adeguato per un’atleta. Così diversa dalle atlete e atleti colleghi delle nazioni ricche del mondo, che calzano sempre calzature firmate e le tute idem. Il rientro da Pechino segna l’inizio di un incubo. Riceve lettere da tante donne musulmane che l’hanno eletta a eroina, a modello ideale. Sono donne che con lei nutrano : “Speranza. Sogni. Fiducia.” E’ costretta a indossare il burqa e a coprirsi il viso nel paese che aveva rappresentato alle Olimpiadi. I Al – Shabaab forse la odiavano. Hodan, la sorella lontana parlava con lei ogni sera grazie alle nuove tecnologie. Poi arriva la decisione di partire. Seguono ancora pagine e pagine sull’’esodo e la fatica estenuante di una speranza sottoposta a mazzate di frustrazioni attraverso territori immensi e ostili. Aveva trovato in fretta i trafficanti di uomini per entrare in Sudan. I somali sanno come si fa. Il corpo piccolo, minuto, le gambe di gazzella si abituano a buche e bruschi movimenti; al vomito e alla spossatezza infinita. La mente deve accettare gli imbrogli dei trafficanti, gente delle stesse etnie, che si inventano il modo di richiedere denaro non pattuito. Dalla nostra parte non sappiamo e non possiamo immaginare cosa vuol dire essere in balia dei propri spietati e feroci simili. Per le donne è peggio, perché in cambio di un biglietto di sola andata ti violentano. A Tripoli ci arriva dopo cinque mesi. A Tripoli ci vive un mese in attesa di imbarcarsi per l’Italia. A Tripoli le parole che scorrano in attesa dell’imbarco sono “Italia” e “Lampedusa”. Nelle acque del Mediterraneo, in prossimità dello sbarco, si conclude la sua giovane vita.