Simona Vinci
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Hanno ragione tutti  –  recensione del libro di Simona Vinci LA PRIMA VERITA‘di Clotilde Barbarulli  da Letterate Magazine, LM Home, Parole/Visioni

Dopo alcuni anni da Strada provinciale tre, Simona Vinci presenta un libro altrettanto inquietante e poeticamente spietato, che fa sprofondare negli abissi della violenza perpetrata da istituzioni e governi, ai confini della pazzia: una lettura che suscita dolore. La prima verità, in una tessitura che attinge anche alla poesia, svela rimozioni collettive e individuali, pone interrogativi sul concetto di normalità che “non è da nessuna parte… poi cosa vuol dire essere normali? Non c’è una risposta, perché è la domanda a essere sbagliata”. Il romanzo costringe ad affrontare il dolore sommerso, urlato, cancellato, dalla Grecia alla Sierra Leone nell’ospedale di Freetown, all’oggi.

Simona Vinci resta colpita – è l’incipit – da una foto in bianco e nero di una bambina nuda senza nome legata in un lettino di ferro, a Villa Azzurra (Grugliasco) negli anni sessanta pubblicata in un giornale: “Sono anni che questa foto mi insegue”perché anche lei è stata considerata una bambina “ineducabile” e “pericolosa”, solo che il contesto, temporale e sociale diverso, le ha permesso un altro destino.

In seguito, riflettendo sulla follia e trovando alcune foto scattate a Leros da Antonella Pizzamiglio – perché, come racconta in un’intervista, è abituata a lavorare “molto sulle immagini”- si forma l’idea del romanzo. A Leros, un’isola del Dodecaneso, era ospitato un manicomio-lager dal 1959, di cui per molti anni nessuno ha voluto sapere, anche in Grecia. Tra il 1958 e il 1981 più di quattromila persone vennero internate nei 15 padiglioni (più un sedicesimo per i più “pericolosi”), fino a quando, negli anni Novanta, l’Europa ne impose la chiusura. In questa istituzione concentrazionaria per eccellenza vengono detenuti anche prigionieri politici con la Dittatura dei colonnelli, dal 1967, ricorrendo alle torture, e naturalmente, secondo i copioni tragici e usuali della Storia, quando si tratta di donne, allo stupro.

La storia della protagonista, Angela, una volontaria che sbarca nel 1992 insieme a un gruppo di operatori per lavorare alla deistituzionalizzazione dell’ospedale, e porta dentro di sé il ricordo del fratellino con una rara malattia genetica, s’intreccia con le vicende stesse dell’autrice quali vengono narrate nell’ultima parte del romanzo, quando svela la propria “diversità” di bambina – accennata all’inizio – irrequieta, aggressiva, che vedeva passare i “mattucchini” per le strade del suo paese natale, Budrio (dove esistevano due ospedali psichiatrici), e aveva una madre persa nell’ombra della follia: “Sono stata una strana bambina e mi sono evoluta in un’adulta altrettanto strana”.

Il libro è scansionato su più piani temporali per intrecciare diverse storie, reali, riscritte, immaginate, inseguendo i fantasmi di persone imprigionate, da Teresa,”una ragazzina chiusa dentro un guscio”, al poeta dissidente Stefanos, che evoca Ghiannis Ritsos (da un suo verso il titolo del romanzo). È la scrittrice a cucire insieme i tempi: il passato ha “petali neri, senza profumo” per Evelina, non lascia “in pace un istante” il guardiano Kostas, è “un’ombra che cammina addosso” a Teresa in quanto è brutto o rimosso, mentre Nikolaus con il sasso in bocca scaccia i ricordi perché “non facciano troppo male”.

Nel manicomio il tempo è immobile specialmente nel reparto 16, un piazzale “frustrato dal sole”, dove gli “ingovernabili” avevano “lo sguardo spento”, come se solo i loro corpi fossero “sopravissuti”: per alcuni, “un’eterna ripetizione dello stesso istante, per altri una corsa folle in avanti, nel futuro, tra cose e persone sconosciute e spaventose, oppure in un passato fitto di eventi che continuavano ad accadere”.

Il “passato non torna, ma nemmeno si estingue – pensa Angela ritornando nel 2009 nell’isola – tutti i malati di mente, i pazzi, i diversi, gli inquieti, gli psicopatici, gli ansiosi, i depressi, i suicidi, i morti in vita, i mostri, i mattucchini del passato sono qui”: ognuno racconta la sua versione dei fatti e “hanno ragione tutti perché una prima verità non esiste da nessuna parte”. I fantasmi per Vinci con la loro “presenza assenza inquietante”, vogliono “impartire una lezione” e devono essere accolti: ogni storia ascoltata “è declinata al presente” in una scrittura/porta che lascia “entrare le voci di quelli che hanno qualcosa da dire” . La spettralità si configura così una modalità narrativa che consente un rapporto etico con passato e presente (Borghi). “L’unica cosa che ti rimane è il tempo/ Il tempo passato, dove vivono tutti i tuoi fantasmi/ Il tempo futuro, dove ti attendono quelli che lo diventeranno/ Il tempo presente: qui.”

L’autrice racconta anche delle ricerche condotte nelle cartelle cliniche di diversi ospedali psichiatrici per ricostruire destini infelici: esprime un’intima necessita rammemorante di quella scia di violenze e dolore che segnano i vari sociali-storici attraverso la letteratura che può riscattare l’esistenza di chi non conta. L’io che parla è, come sempre, un io letterario: “la voce narrante sono e non sono io”. L’autrice ci tiene a sottolinearlo avendo “rubato brandelli di vita” senza permettersi “di rovesciare per intero le loro storie sulla carta” anche perché solo i diretti interessati possono comprendere fino in fondo la verità.

Oggi, che i manicomi sono chiusi, secondo Vinci, il malessere non è finito, anzi è in aumento per la depressione generata dalla mancanza di lavoro e di prospettive, ma ognuno lo gestisce nel silenzio, individualmente: “i muri di delimitazione, i confini, le città speciali, si possono costruire anche senza cemento… disgregare un tessuto sociale può essere altrettanto efficace”. Leros così allude a tanti altri luoghi in tempi diversi, al di là della malattia mentale

Non è casuale quindi che il libro si concluda con i barconi di migranti che approdano all’isola dei matti. Se le paure della diversità hanno sempre dominato i governi cancellando il concetto stesso di società e determinando morte, reale o simbolica, per gli esclusi, oggi in particolare prevale una irresistibile tendenza alla produzione sociale di im-mondo, un eccesso che non si assimila nella rappresentazione dei processi globali (Borrelli), ovvero di tutto ciò che non riusciamo ad integrare nel nostro sistema di vita. Del resto Vinci ricorda che a Budrio la zona dei manicomi era stata nel passato una discarica di rifiuti: “pure i matti sono una cosa indecorosa, scomoda, e dove vuoi che ti venga in mente di metterli, per non disturbare gli altri, se non nello stesso posto nel quale getti gli scarti della tua vita?” Ancora di più oggi, credo – si tratti di rifiuti urbani, di scorie radioattive, di lavoratori precari o di immigrati clandestini – si producono elementi residuali affrontati solo in termini di respingimenti e di abbandoni. Sia l’immondizia sia gli immigrati rappresentano una forma di rovine della nostra civiltà, come prima i pazzi: esibiscono il troppo che c’è per questo lo espelliamo, così ci immunizziamo da ciò che è altro da noi, dimenticando come lo spazio sociale possa e debba essere invece una realtà collettiva capace di ospitare tutt*.

 

Simona Vinci, La prima verità, Einaudi 2016, pp. 397, euro 20,00

Antonella Pizzamiglio, Leros, il mio viaggio, Artestudioarte 2015 (foto del 1989 e 2010)

Davide Borrelli e Paola Di Cori ( a cura di), Rovine future. Contributi per ripensare il presente, Lampi di stampa 2010.

Intervista on line Corriere della sera, “Simona Vinci: vi racconto la prima verità della follia” 29/3/2016

Liana Borghi, “In viaggio con Katia Petrowskaja”, paper workshop gruppo Sil-Firenze, Convegno SIL “Conflitti e rivoluzioni” 2015.