Credo ci sia una finestra che va aperta e nessuno fino ad ora ha aperto, almeno a mia memoria, sulla stampa quotidiana, in merito alla posizione riservata alla cosiddetta “questione femminile” nella scala delle priorità dell’area progressista.
Né a lei né a me sarebbero forse date risposte sincere o in perfetta buona fede, ma lo scopo di queste domande è proprio quello di mostrare che malafede c’è, come sempre c’è quando si enunciano principi senza dar corso ad azioni conseguenti.Gentile direttora,

lei apre periodicamente finestre su quelle grandi sconosciute, per la politica, che sono le donne.

Le ha aperte pubblicando contributi sulle violenze che subiscono e sulla loro esclusione dalla sfera decisionale. Quando questo si verifica, il merito di chi lo fa è indiscutibile.

Credo però che ci sia una finestra che va aperta e nessuno fino ad ora ha aperto, almeno a mia memoria, sulla stampa quotidiana, in merito alla posizione riservata alla cosiddetta “questione femminile” nella scala delle priorità dell’area progressista.

Né a lei né a me sarebbero forse date risposte sincere o in perfetta buona fede, ma lo scopo di queste domande è proprio quello di mostrare che malafede c’è, come sempre c’è quando si enunciano principi senza dar corso ad azioni conseguenti.

Se la “questione femminile” è la più antica e pervicacemente sostenuta in ogni regime moderno diventa difficile pensare che l’unica ragione sia culturale ed emotiva.

Se guardiamo alle risorse impiegate dai governi nel contrasto alle violenze sessuate, diventa difficile mettere nel computo non solo guerre contro il burqua e bombardamenti contro gli integralisti, ma anche dichiarazioni, spot, conferenze (anche le dichiarazioni politiche hanno un’onerosità, se riflettiamo bene) il cui costo supera di molto la cifra negata alle risorse di sostegno alle vittime e alla prevenzione.

Né il superamento dell’esclusione dal potere, né quello della subordinazione violenta delle donne sono mai state una priorità per la politica. Nelle pieghe di queste due questioni c’è una sostanza politica che preme verso la rifondazione del pensiero sul governo delle cose.

Andare avanti! Non è questo che vogliono, o dovrebbero volere gli uomini che si nominano progressisti? Vorrei, e forse dovrebbe volere chiunque si occupi della così detta crisi della politica, che questa prospettiva venisse liberata, ovviamente, dalle ipocrisie, ma soprattutto dai falsi problemi come per esempio “il silenzio delle donne”.

Le donne non sono un’indistinta realtà politica che taumaturgicamente trova una sola voce perché “così serve”. Pare che questo sia un postulato della nostra democrazia. Che per le donne è fatta di molti principi e pochissima attuazione.

La democrazia si va strutturando nel mondo anche enunciando principi, che però per secoli possono rimanere tali e senza applicazione. Per questo se la democrazia, che è un sistema di rapporti dinamico, è ancora un paradigma per la politica lo deve proprio a quei soggetti che la muovono perché quei principi si estendano per il solo fatto di essere applicati, non dandoli per morti . I soggetti che la muovono, indipendentemente dalla capacità di comprensione dei capi riconosciuti, non tacciono e parlano di traguardi sulla via della riparazione ai guasti del potere.

Mentre i soggetti politici che fanno questo per scelta non solo di passione, ma anche con professionalità politica, continuano a farlo, (nonostante “i capi” continuino a comportarsi come bambini viziati con le madri, prendendo a piene mani regali che fanno di tutto per smontare e consumare) dobbiamo porci LA domanda. Quanto debbono invecchiare ancora i guasti della schiavitù, politica, morale economica e religiosa di un intero genere, perché vengano non più considerati contingenze interne ad altri e più importanti problemi?

Siamo sicuri e sicure che si possa andare verso il rispetto del pianeta dando per scontati i gesti delle donne che fino ad oggi lo hanno medicato? Siamo sicuri e sicure, che basti cambiare un Presidente degli Stati Uniti, per cominciare a parlare di giustizia globale?

Nessun passo avanti, se quello stesso Presidente non dice, insieme alle altre cose rivoluzionarie, e non denuncia che l’economia del suo paese tollera ancora che a Ciudad Juarez le madri non abbiano risposte sullo sterminio delle loro figlie, e tollera che quello stesso sterminio si ripeta in silenzio altrove o lì.

Non basta un uomo buono, anche se è un uomo che parla di pace tra i popoli. Ci vuole altro: bisogna parlare di pace nei popoli, iniziando a smettere di contemplare la guerra contro le donne nella maggioranza delle case, luoghi di lavoro, studio e nella strada, come se alle vittime spettasse solo il compito di soffrire ed essere consolate. O sepolte. Anche sotto i fiumi di parole scritte e pronunciate, perché no anche scritte nelle leggi.

Anche le leggi del nostro paese. Con alcune di queste si sono introdotti i principi di parità e uguaglianza, a costo di dure lotte sostenute dalle vite di donne dimenticate o poi rinnegate ed anche dalla più grande rivoluzione incruenta della storia. Un mare di energie; per poi prendere il tutto e lasciarlo in posizione laterale ad ogni questione, per di più occultando la permanenza dei retaggi dell’oppressione istituzionalizzata nelle migliaia di provvedimenti, così detti, minori. Ma anche nella Costituzione stessa che, con buona pace del art. 51, continua a fondarsi sull’dea che il lavoro di cura non sia un dono delle donne, ma un ruolo preciso loro attribuito.

Lo sapeva, ed ha provato a cambiare gli articoli deputati Ersilia Salvato, che presentò un testo di modifica. Li presentò dal corpo della Sinistra, ma nel corpo della sinistra non ne è restata traccia.

Ci sono altri casi,o regole non secondarie, nei codici civili e penali, che mostrano quanto venga esclusa l’autodeterminazione delle donne. Una per tutte la legge sulla fecondazione assistita, ma anche quella sull’aborto, e miriadi di leggi e leggine che si sublimano e compendiano nel fatto che quando si parla di welfare, la parola che rappresenta le donne è solo e sempre “famiglia”.

Ci sarebbero mille argomentazioni, ancora, sulle quali interrogare i Progressisti uomini, e mille ancora dentro i loro rapporti interpersonali, la cui primitività è ben rappresentata e vantata dall’attuale governo, ma la cui sostanza non vede nessuno incolpevole. Sarebbero mille, e sono tutte eluse, in più soffrendo della rappresentazione mediatica che se ne dà (non solo televisiva).

In questo campo, la genericità e il dar le viste che le donne siano le principali complici di questo stato di cose, come ho cercato di dire prima, non fanno parte di semplice sciatteria nella documentazione, ma costituiscono il modello comunicativo che, con diverse sfumature, incastona le donne nel luogo più consono.

Mi piacerebbe dire che tutte le donne autorevoli che sono intervenute nel suo dibattito avessero, almeno loro, fatto presente che{{ la lotta per la libertà di stampa è sentita diversamente da donne e uomini}}. Perché dentro la libertà degli uomini c’è una quota di illibertà femminile, ancora data per acquisita e “normale”. Mi piacerebbe che qualcuna avesse detto, o fosse stata ascoltata dicendolo , che non ci sono e non sono previsti tempi di “trattativa” per una vera inclusione dei soggetti femminili in una manifestazione (quella del 3), perché diventerebbe troppo problematica.

Dovrebbe trasformarsi in una lotta per cambiare icone, per cambiare parole ed immagini: anche pubblicitarie sulle pagine dei giornali. Mi piacerebbe tanto, ed allora lo dico io.

Noi stiamo facendo una lotta almeno per non pagare con le tasse le affissioni che incitano alla sottomissione e allo stupro: una moratoria per i comuni sulla base della legislazione Europea.

Facendo questo lavoro, mi è stato detto che siamo ed io sono contro la libertà di espressione. So anche quale libertà, alla quale rivendico di essere contro: quella degli uomini predatori (quanti sono?) e quella delle donne in corsa per essere incluse nell’unico percorso per il successo, quello delle moderne Montespàn. Preciso che né contro la persona di madame né contro quella delle sue emule ho nulla da dire. Ho molto da dire sulla malafede di chi le usa come pretesto per continuare a non cambiare, ho molto da dire sul fatto che la loro astuzia è dannosa come le bustarelle.

Non so se lei pubblicherà questa lettera troppo lunga, non so se ne terrà conto, ma le mie parole, e quelle di tante altre, ci sono.
_ Indipendentemente da queste due eventualità.