Recensione di Franca Cavagnoli da AlfaBeta2

— Andare qua e là senza una meta precisa, avventurarsi per viottoli poco frequentati, tentare vie nuove e impervie che allontanano dai sentieri più battuti è un cammino del tutto naturale per chi scrive. Ma lo è anche per chi traduce: errare è una delle azioni più feconde del tradurre letteratura. La grammatica descrive come la lingua è fatta e come opera, e lo fa a partire dalle sue regole. Però, quando ci si trova a tradurre i dialetti, le parlate locali o le lingue di contatto – i pidgin e i creoli che sono il frutto della mescolanza tra culture profondamente diverse – si lavora con gli impacci e le eccezioni della lingua, con le “devianze ammesse o proibite”, come le chiama Vittorio Coletti. Sviarsi, in questi casi, è d’obbligo se si vuole aderire alla radicale sovversione delle aspettative del lettore messa in atto dagli autori che lavorano con un materiale lavico. È in questo spazio liminale che chi traduce può mettersi alla prova ed errare. Come la consapevolezza della perdita inevitabile rende possibile, secondo Paul Ricoeur, il farsi della traduzione, così la piena coscienza di dover errare, nel suo duplice significato di vagare senza meta e di sbagliare consapevolmente, in un luogo scomodo ma fertile, consente di rinvenire cose che in parte compensano le perdite. Se si persevera, è probabile che in questo luogo si riesca a vedere un cono di luce opaca. Non sempre rischiara quello che si stava cercando, ma spesso consente di trovare qualcosa che nemmeno si cercava. Errare, dunque, come condizione imprescindibile per approdare a Serendip.

Dell’errare si parla nel bel saggio di Mariarosa Bricchi edito da Il Saggiatore, La lingua è un’orchestra (pp. 272, euro 22). Gli errori, ha scritto Andrea De Benedetti, possono anche essere un sintomo, poiché non rappresentano “la semplice violazione di una regola” ma “una violazione basata su un’ipotesi alternativa di funzionamento della lingua”. E in questo modo incoraggiano la creazione di frasi ibride. Ma basta consultare un qualsiasi dizionario della lingua italiana per rendersi conto della connotazione negativa che accompagna la definizione dell’aggettivo ibrido. I sostantivi “giustapposizione” e “accostamento” sono per lo più accompagnati dagli aggettivi “arbitrario” e “incongruo”, e si evidenzia la presenza di elementi eterogenei che non legano bene fra loro, quasi fossero male assortiti, dissonanti, quando sarebbe sufficiente evidenziare in modo neutro la pluralità della composizione di ciò che è ibrido, e dunque la sua grande ricchezza. Ed è proprio l’ibrido a far paura a molte redazioni: il quieto rifugio dell’ordine, del decoro sintattico e lessicale, è ben più rassicurante.

Bricchi non teme l’ibrido, e il suo parlare di errori è cauto e tollerante: pur segnalandoli, spesso chiama in soccorso i grammatici non solo per confermarne autorevolmente la presenza ma anche per mostrare le devianze lecite e i margini di ambiguità. L’intera sezione intitolata “A margine”, con le sue panoramiche finestre che si aprono sull’uso di trattini e lineette, due punti, ripetizioni retoriche, frasi slogate e alterazioni, è una opportuna riflessione su errori e devianze dalla norma, e su come evitarli, ma anche su come vederli non simili a nemici bensì possibili alleati per dare alla frase che si sta traducendo – o scrivendo o a cui si fa l’editing – quel di più di spontaneità e di brio.

Uno dei pregi del libro, il cui sottotitolo è Piccola grammatica italiana per traduttori (e scriventi), è che non serve solo ai traduttori ma anche agli editor, ai redattori e ai giornalisti, e pure a quei giovani autori che aspirano a non scrivere in “traduttese”, come direbbe Giuseppe Antonelli, e cioè nella “lingua corretta, scorrevole, pacatamente brillante o moderatamente letteraria delle traduzioni” – la lingua che contagiava gli autori italiani negli anni Novanta. Nel raccontare i malanni dell’italiano, Bricchi, editor e storica della lingua italiana, attira l’attenzione in particolare su quella che ha battezzato “la congiuntivite del traduttore” e sulla lingua artificiale, il cui esempio più evidente è l’antilingua di calviniana memoria. Prendendo spunto dalla coniunctivitis professoria che il filologo Giorgio Pasquali già negli anni Trenta aveva individuato come una vera e propria malattia professionale degli accademici, Bricchi analizza le ipotesi che fa quando nel suo lavoro di editor si trova davanti un testo infarcito di congiuntivi inutili. La prima è l’ipercorrettismo e in genere ne è affetto chi è un po’ insicuro delle sue competenze linguistiche: per il timore di usare un indicativo fuori luogo eccede sul versante opposto e semina congiuntivi a piene mani. Un’altra ipotesi sta nella tendenza ad alzare il registro: spesso chi usa troppi congiuntivi preferisce nobilitare il lessico, ed ecco che i personaggi di un romanzo giungono e si recano e nessuno più va e viene oppure a tutti duole il capo e a nessuno fa più male la testa. Infine, un’altra ipotesi possibile – la più sfuggente, secondo Bricchi – è che al congiuntivo si continua ad attribuire “quel valore di codifica dubitativa che risiede in realtà solo nel verbo reggente”. Una sorta di capacità aggiunta di insinuare incertezza che per alcuni “scriventi” è preferibile alle frasi tagliate con l’accetta. Se questa ipotesi regge, osserva Bricchi, “piace la lieve instabilità, il moto ondoso che i congiuntivi superflui sembrano immettere nella pagina”. La suggestione ha dunque la meglio sull’affermazione. Di riflessioni e frasi così – il libro è scritto con una leggerezza e chiarezza ammirevoli, che ne fanno anche una godibilissima lettura – ce ne sono molte, un altro dei pregi di questo prezioso volume, perché rivela una editor intelligente, attenta a capire le ragioni più intime e inconsapevoli del suo interlocutore.

L’altro diffuso malanno della nostra lingua è “l’insinuarsi, in contesti che non le autorizzano, di due varietà di lingua artificiale: quella pomposa e quella burocratizzante”. Anche qui gli esempi di Bricchi chiariscono molto bene “gli abusi linguaioli”, le forme di “autopromozione stilistica” e “i residui paludati e parrucconi” da evitare a ogni costo per non ritrovarsi sul foglio un italiano spesso malato di perbenismo: forbito e rispettoso delle regole grammaticali, ma su cui risuona “la roca trombazza” evocata da Gadda. Pure l’antilingua del brigadiere del famoso articolo di Calvino, uscito sul “Giorno” nel 1965, rivela la stessa origine psicologica: la paura di un italiano limpido, destinato a essere intorbidito da parole e forme burocratiche. La lingua, dunque, è sì un’orchestra, che a volte accorda e a volte fa stridere gli strumenti più diversi, in cui la voce narrante – o argomentante, o poetante, perché il libro di Bricchi non si limita alla lingua della narrativa – gioca con una varietà di stili e registri. La nostra lingua, però, è anche un bene comune: l’apprendiamo sì alla nascita, ma accanto al diritto c’è il dovere di rispettare e tutelare “le risorse comuni – culturali, naturali, ambientali”.

Mariarosa Bricchi  La lingua è un’orchestra   Il Saggiatore – pagine 271, euro 22