Le donne, nonostante abbiano ottenuto da tempo (e su carta) il diritto di decidere del proprio corpo e delle proprie libere scelte, si trovano ancora a fare i conti con una legge, la cui applicazione non sembra decantare come il buon vino. E questo perché, a dirla con le parole di Lea Melandri, “la violenza maschile ha molti aspetti – da quelli più selvaggi e manifesti a quelli più invisibili, che si ammantano di sacralità e rispetto dei più alti valori umani –, ma un obiettivo sempre più evidente: impedire che le donne trovino il senso della propria vita in se stesse e non nell’essere al servizio o in un funzione dell’altro, nel rifiuto di conformarsi a modelli che contrastano coi loro desideri, a essere, come sono sempre state un “mezzo per un fine”, nella sessualità come nella procreazione e nelle forme più elevate dell’amore” (27esimaora, Corriere della Sera).

Uno dei problemi è certamente quello legato all’obiezione di coscienza prevista dalla legge 194/1978, che disciplina la tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG).

Il personale sanitario non è tenuto a “prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione” (art. 9).

Lo stabilisce la legge.

Se non fosse, poi, che nel terzultimo comma dello stesso articolo si sancisce anche che “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”.

Oggigiorno, cercare un luogo sanitario dove tutto il personale sanitario non abbia scelto l’obiezione di coscienza è cercare un ago in un pagliaio. Così, ciò che una volta era un diritto della donna, ora è divenuto un dovere di accettare l’obiezione di coscienza tout court.

Dovremmo tornare indietro e partire dalla considerazione che la legge è stata varata come una in ogni caso legge compromissoria, tra la Chiesa-Stato e la libera volontà delle donne. Altrimenti il legislatore non avrebbe sentito la necessità di precisare che l’IVG non deve essere usata per controllare le nascite o ai fini di limitarle (il concetto viene ripreso continuamente: ora qua, ora là). Ciò che il legislatore voleva era ben chiaro fin da subito: tenere a freno le richieste femministe, con qualche concessione, e tenere ben salda la democrazia cristiana in parlamento e il suo più alto sponsor (la chiesa).

Così, dopo il primo articolo, alle donne hanno somministrato il secondo. Raccontando la favola che i consultori (voluti dalla legge 405/1975) hanno la funzione di assistere (rullo di tamburi!) la donna in stato di gravidanza. E questa assistenza, o presunta tale, dovrebbe consistere nell’erogare innanzitutto informazioni sui suoi diritti (con i quali si gioca a nascondino) legati alla normativa nel settore, ma anche sui servizi socio-assistenziali e sanitari ai quali la donna può accedere rispetto alle strutture presenti sul territorio. Ma si spinge oltre: il consultorio dovrebbe anche informare la donna su come tutelare il proprio stato di gravidanza sul posto di lavoro (non ce la fanno manco i sindacati!). E, per non tradire quanto già detto, contribuire a trovare soluzioni per superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza.

Lo striminzito (rispetto agli altri) art. 4 disciplina la possibilità di scegliere l’IVG. Ma, è chiaro, non così per scelta libera e consapevole, ma entro i primi novanta giorni e quando la donna “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. E se si superano i tre mesi, viene in soccorso l’altrettanto striminzito art. 6 che permette alla donna di praticare l’IVG “quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la sua vita o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica” della stessa donna.

Penserete: “Allora, può farlo quando vuole!”.

E no, perché alla donna si dà ancora un’altra proroga (quasi fosse impedita cognitivamente nel capire cosa vuole e perché lo vuole) dicendole di soprassedere, dopo il documento rilasciato dal personale sanitario, ancora sette giorni. Insomma, le viene somministrata la pillola del ripensamento, con la speranza che possa fare effetto almeno il giorno dopo.

La verità è che la donna ha combattuto e non poco per conquistare la libertà di agire sul proprio corpo (e non solo su quello). E, indotta dagli ostacoli, lo fa anche senza legge.

Lo fa con rischi e limiti quando, ad esempio, l’obiezione di coscienza diventa così galoppante che non è una eccezione di scelta, ma una prassi a macchia di leopardo. Così, vallo a trovare il personale sanitario che non lo sia. Diventa un giro di mercati, finché si finisce in clinica (sempre che vada bene, visto che i vecchi metodi della mammina e dell’uncinetto esistono ancora, soprattutto tra le fasce più deboli e fragili della popolazione femminile del meridione).

Nessuno vi vuol togliere, cari medici e care mediche, la possibilità di obiettare rispetto alle scelte di una donna (anche se, a dirla tutta, Ippocrate si rivolterebbe i calzoni e i calzini nella tomba), ma dovete smetterla di sceglierla a piè pari, spingendo alla disperazione le donne che – per qualsiasi ragione e forti della legittima libertà di scegliere – decidono di interrompere la gravidanza.

E, in verità, bisognerebbe anche rivolgersi agli e alle assistenti sociali del consultorio, rammentando loro che il loro mandato sociale (e quindi anche deontologico) non solo impone di azzerare il giudizio di valore (e quindi perché sviluppare i sensi di colpa nelle donne dicendo loro che sono incoscienti e peccatrici e mandando in pensione l’art. 9 del codice deontologico? Perché?), ma di informare sugli svantaggi e sui vantaggi (pure su questi!) degli interventi richiesti dalle donne. Il servizio sociale dei consultori dovrebbe sapere (e qualcuno lo sa, per carità) che l’autodeterminazione di una donna passa solo attraverso la possibilità che sia lei a scegliere, non qualcun altro o qualcun’altra al posto suo. Altrimenti è solo determinazione. E di chi ha la narrazione (maschile e virile) del potere.

Se poi non ci fosse un’altra assurdità, potremmo anche finirla qui.

Che si sappia che il personale sanitario, che sceglie per l’obiezione di coscienza, non può applicarla nell’ospedale pubblico e redimersi improvvisamente nella clinica privata. Anche perché, a leggerla proprio bene, questa legge non permette alla coscienza del personale medico di scegliere il vestiario in base al luogo in cui si trova (o al portafogli che si rimpingua). O lo sei o non lo sei, obiettore/obiettrice.

Le donne hanno dovuto lottare così tanto in piazza e ovunque al mondo per poter decidere per sé, per il proprio corpo, per la propria sessualità, per la propria capacità di decidere sulla procreazione, che si ritengono stufe di una certa capziosa manipolazione maschile. Non sono più soltanto sgomente. Sono incazzate. L’interruzione di gravidanza è considerata ancora oggi un fatto morale, di matrice religiosa, una questione femminile spesso irrisolvibile e quindi da frenare. Né più né meno.

Si ritiene, invece, che il controllo sia necessario per le donne che non sono in grado di intendere e volere? Per le minori? La legge disciplina anche su questo e insiste sugli interessi anche di queste donne. E pertanto, basterebbe semplicemente applicarla questa legge (per quanto abbia evidenti limiti). Basterebbe non offenderne l’esistenza.

A tutti quei medici e quelle mediche che hanno un cambio di coscienza a stagione, ricordiamo ancora una volta cosa disciplina l’art. 9, comma 4, della legge tanto discussa: “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”.

Questa è la legge e va applicata. Fatevene una ragione.

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