“La chiamano eroe ma non si curano delle sue paure, della sua condizione”, così l’appello della Cgil e del mondo dell’associazionismo femminile e del lavoro al tema della donna al tempo del Coronavirus. In un periodo in cui siamo al fianco di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori, della sanità come di tutti i servizi essenziali e dei luoghi aperti, battendoci ogni giorno perché vengano forniti dispositivi, tamponi di controllo e protocolli di sicurezza, teniamo alta l’attenzione, come sempre, sulla condizione femminile nel suo insieme.

Non avere più lavoro oppure lavorare e chiudersi dietro la porta di casa con la paura di contagiare i familiari, non poter scegliere di isolarsi, sospese tra il dubbio di prendersi cura di bambini o anziani, come e più di sempre, o star loro lontane per non essere per loro fonte di contagio. Non avere alternative, perché il bonus baby sitter può arrivare, ma la baby sitter stessa non si trova, perché spesso non può esserle garantito di lavorare in piena sicurezza. È una forma di violenza anche la non previsione delle modalità reali attraverso cui si possono attuare strumenti di sostegno messi a disposizione, non pensando alla catena di implicazioni che aggravano la già difficile quotidianità di una donna, lavoratrice ma anche figlia, ma anche madre, ma anche – spesso – troppo spesso, compagna di un violento.
Stare a casa, in questo momento può essere una vera e propria minaccia per tutte le donne vittime di violenza.
Il calo delle denunce di violenza di genere nell’ultimo mese non è un dato rassicurante.
È noto che una convivenza obbligata aumenta ed esaspera maltrattanti e atteggiamenti violenti, e purtroppo spesso i figli assistono alle aggressioni inflitte alle madri.

Sappiamo che molte donne sono terrorizzate al solo pensiero di essere scoperte al telefono mentre cercano di chiedere aiuto ai centri antiviolenza o impaurite dall’idea di dover abbandonare la propria casa in un momento così difficile, soprattutto se hanno perso o sospeso il lavoro.

Il fatto che sia oggi un tema di cronaca, è forse occasione per far emergere e dare forza a quello per cui ci battiamo da sempre. Contrastare la violenza, cambiando la realtà e cambiando la cultura. La Regione Lazio ha da pochi giorni deliberato 750 mila euro come “contributo di libertà”: per le donne in uscita dalle case rifugio, esteso oggi a chi viene presa in carico dai centri antiviolenza.
È una scelta importante, che si dovrebbe collocare in una più ampia iniziativa istituzionale da parte di tutti i soggetti che governano l’azione pubblica, e che intervenga su tutti i fronti: poternziare la rete pubblica dei centri antiviolenza, dei consultori, delle case rifugio, applicare pienamente la legge 194, garantire l’efficacia degli interventi e un percorso protetto di accoglienza e aiuto, sostenendo le realtà sociali che suppliscono alla carenza di investimenti pubblici, piuttosto che “sfrattarli”.
Solo così è possibile rovesciare la paura in azione, limitare la prevaricazione che della debolezza del sistema di difesa fa la sua forza. Non sapere dove andare (“ma tanto dove puoi andare?”), è un giro di chiave in più che rende impossibile uscire dalla propria “gabbia” domestica. Ricordiamo che è sempre attivo il numero antiviolenza 1522, centro attivato dalla Presidenza del Consiglio e gestito dal Telefono Rosa, a cui sono collegati anche i centri antiviolenza di Roma Capitale (attivi h24) e delle altre province del Lazio. In questo periodo è stata creata anche la versione app per smartphone (TelefonoRosa), in modo da poter chiedere aiuto senza parlare.

Noi di Fp Cgil Roma e Lazio ci siamo, come sempre, dalla parte giusta. Anche se momentaneamente lontane, ricordiamoci che non siamo sole, e chiunque abbia bisogno di aiuto non esiti a contattare il 1522.