Oggi le strade di Roma che portano da piazza della Repubblica a quella di San Giovanni si riempiranno di decine e decine di migliaia di persone. Fra circa un mese l’8 marzo le stesse strade vedranno percorse da altrettante persone chiamate a manifestare dal movimento femminista Non Una Di Meno contro la violenza ma non solo. Anche per lo sciopero generale di marzo si chiederà di rispettare il primo articolo della Costituzione che recita «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

Sì, perché il lavoro garantisce a donne e uomini dignità, identità, libertà e autodeterminazione. Deve essere però un lavoro non alienato, non schiavizzato, non inquinante… Lottare dunque perché nel lavoro, capace di produrre beni e servizi, ci si possa esprimere con creatività, impegno e solidarietà (no alle fabbriche di armi, ad esempio). Prerogative necessarie per costruire una economia sostenibile per gli esseri umani e per l’ambiente.

Questo a mio avviso è uno dei punti fondamentali della democrazia e del vivere civile.

Ma questi anni, in cui molte persone, senza risparmiarsi ( in attività che ritenevano necessarie per il proprio territorio e per la democrazia) hanno visto crescere anche un malessere generalizzato che ha messo a dura prova la coscienza civica.

Un disagio politico che radica nella separazione tra impegno civile (presenza massiccia nell’associazionismo e nel volontariato) e rappresentanza politica.

Il mio punto di riferimento sono i partiti della sinistra, perché è al loro interno o tra chi li votava (grande è stato ultimamente l’astensionismo nell’area del centro-sinistra) che sono nate le prime espressioni di una cultura femminista che chiedeva e chiede a gran voce libertà, autodeterminazione e partecipazione.

Ebbene queste formazioni politiche sono diventate fragili, per dinamiche dovute soprattutto a conflitti su obbiettivi programmatici astratti, privi delle capacità di essere verificati in concreto sui territori. Una verbosità che ha allontanato la partecipazione creativa e operativa di molte persone. Persone che li avrebbero arricchiti, rendendoli forti e capaci di contrastare ogni possibile avventura di destra. Una destra desiderosa di riportare la maggioranza delle persone di questo Paese a culture, xenofobe, aggressive, violente, inquinanti e criminali.

Ma, non tutto è perduto. Il dibattito all’interno del centro sinistra è ancora vivace anche se frammentato. E’ vero, ancora ci si divide, pensiamo all’ultimo nato : l’Italia in Comune, un partito promosso da sindaci e sindache. In vista delle elezioni europee di fine maggio, Italia in Comune ha scelto di dare vita a un progetto congiunto con i Verdi. Ci sarà da capire poi se prenderà piede il progetto di Siamo Europei, il listone di centrosinistra che nei piani di Carlo Calenda dovrebbe comprendere, oltre al partito di Pizzarotti, sindaco di Parma, anche il Partito Democratico e + Europa.

Un dibattito ricco ed articolato senza pregiudizi o giudizi faziosi, (le fazioni, un male endemico nei comportamenti del centrosinistra) potrebbe dare il meglio di sé. Potrebbero essere individuati pochi ma chiari obiettivi (ascoltando anche la voce dei movimenti) sui quali convergere. Così potrebbe essere costruita una identità collettiva forte e non frammentata, capace di cambiare le sorti in Europa e in Italia. Capace di portare nelle istituzioni la forza di donne e di uomini, permettere cambiamenti concreti e significativi. Un po’ di pragmatismo a volte non guasta.

La forza dei movimenti può dare forza anche alle istituzioni. Senza dimenticare che esistono culture e interessi che divergono. Per fare un esempio. Prendiamo una persona che vive del proprio lavoro dipendente. Può essere mossa da sentimenti di rivalsa verso chi è a lei simile, cancellando solidarietà, partecipazione, dialogo e alimentando invece, divisione, odio, invidia, aggressività. Questa situazione crea divisione e debolezza. Un modo di essere che non aiuta nessuno tanto meno chi lo esercita. Dall’altra pendiamo chi è titolare di una impresa o chi deve gestirla: può impostare la produzione in modo tale che come ultimo obbiettivo ci sia il massimo profitto per ottenere il massimo godimento nella propria vita privata: ville, barche, aerei, status sociale… a scapito di investimenti, del miglioramento della qualità e delle condizioni di lavoro, dell’occupazione….

Una volta chi lavorava indipendentemente dal suo comportamento veniva considerato classe operaia e quindi di sinistra mentre chi faceva impresa era il padrone che in automatico era portatore di una cultura di destra. A questo proposito ricordo uno slogan del femminismo degli anni Settanta: Compagno sei un ravanello rosso di fuori e bianco nel cervello – Infatti, destra, centro e sinistra coinvolgono soggettività diverse e la linea di demarcazione non è più di tipo sociologico: da una parte i lavoratori, dall’altra i padroni. La divisione passa per la coscienza civica di ogni individuo capace di individuare il bene comune. Ed è per questo che oggi i partiti della sinistra possono recuperare consenso solo se scelgono obbiettivi in grado di essere verificati nella loro attuazione concreta. I programmi verbosi, anche se accattivanti, non catturano più l’attenzione creano disaffezione verso le istituzioni e astensionismo.