Il contratto firmato da Lega e 5Stelle rivela una precisa visione del ruolo delle donne e della famiglia: la cura è un problema tutto femminile. Chi ha i soldi può risolverlo pagando, le altre pesando sulle nonne o rinunciando al lavoro. Un’analisi di genere e le ripercussioni sull’economia

Che tipo di famiglia hanno in mente gli estensori del ‘contratto di governo’ Lega-5Stelle? Pensano alla famiglia tradizionale, con l’uomo che porta a casa il pane e la donna impegnata nella cura dei famigliari, con al massimo un lavoro part-time a integrare il bilancio? O a una famiglia che, fuori dagli stereotipi sessuali, condivide lavoro pagato e non pagato? La domanda è importante, non solo per capire quali prospettive attendono la parità di genere, e in che modo si vuole rispondere al problema della sostenibilità del modello di sviluppo, ma anche per immaginare quale sarà l’impatto sull’economia del paese. A una prima lettura il contratto sembra barcamenarsi fra i due modelli descritti sopra, ma solo in apparenza.

Una buona cartina al tornasole è data dalla presenza nel programma di quegli investimenti in infrastrutture sociali che inGenere da anni sostiene. Se le donne devono essere alleggerite del peso del lavoro di cura, non ci sono molte soluzioni alternative.

Questo lavoro può essere in parte scaricato sugli uomini, che in Italia sono molto resistenti ad assumerne la responsabilità (è ancora l’80% delle donne a cucinare e pulire la casa). Su questo, tuttavia, un governo direttamente può fare poco.

Il lavoro di cura può essere esternalizzato in parte dalla famiglia al mercato. Ma in questo caso saranno principalmente le donne delle classi più abbienti – che si possono permettere di comprare servizi a pagamento – a esserne sollevate.

Può farsene carico il settore pubblico e in questo caso il beneficio è anche per le classi di reddito più basse.

Qual è la scelta fatta dalla coalizione?

Nel ‘contratto’ si parla di politiche per “consentire alle donne di conciliare i tempi della famiglia con quelli del lavoro (corsivo nostro)”. Dunque, la conciliazione è considerata un problema solo delle donne, ignorando la legislazione recente volta a incoraggiare gli uomini a partecipare almeno alla cura dei figli. Le politiche di cui si parla sono principalmente “asili nido in forma gratuita per le famiglie italiane”. Al di là del fatto che il lavoro di cura non si esaurisce con quello richiesto dai bambini e dalle bambine nella prima infanzia, non è chiaro se si prevede di creare nuovi asili (non c’è comunque traccia di un numero che dica quanti nuovi posti) o se, come sembra più probabile, l’innovazione consista nella gratuità dell’asilo. Poiché al momento le rette sono commisurate al reddito, la gratuità si prefigurerebbe come un’altra misura a favore di chi ha di più, in linea con il resto della politica fiscale. Infine, questi asili sono concepiti solo come parcheggio e non come strumento di formazione, con un ruolo importante nel ridurre gli svantaggi inziali di chi nasce in famiglie con livelli di istruzione e/o di reddito bassi.

La scelta di escludere dal beneficio i bambini di famiglie non italiane è il contrario di quello che il buon senso imporrebbe. Molti immigrati non sono qui solo di passaggio. Prima comincia il lavoro di integrazione prima si favorirà l’apprendimento della lingua, dei costumi e dei modi di pensare.

Concretamente, il contratto di governo indica due strade per la conciliazione.

Innanzitutto: attraverso detrazioni fiscali (colf e badanti per gli anziani, rette per l’asilo), “sostegni reddituali adeguati” e una somma una tantum per le madri che tornano al lavoro. Ma, come abbiamo osservato più sopra, le detrazioni fiscali e la copertura parziale dei costi dei servizi acquistati sono attraenti per chi già lavora e ha un discreto reddito. Questa politica avrebbe il risultato di aggravare uno squilibrio che in Italia ha già proporzioni allarmanti. Nel nostro paese è occupato il 73 per cenno delle laureate e il 30 per cento delle donne con al massimo la licenza media. Al Sud meno di una donna su cinque con al massimo la licenza media ha un’occupazione. Le donne che lavorano si troverebbero con più soldi in tasca. Quelle che non lavorano avrebbero ancor meno incentivi a farlo. Mancano servizi a prezzi accessibili e manca la domanda per il loro lavoro, e verrà meno anche l’incentivo monetario, se la nuova tassazione introdurrà una detrazione unica per la famiglia e non sui redditi individuali.

La seconda strada indicata dal contratto per la conciliazione? Per chi ha un reddito basso, ci sono le nonne. L’opzione donna, vale a dire la possibilità di andare in pensione con il metodo contributivo con 57-58 anni di età e 35 di contributi, viene introdotta fino all’ “utilizzo delle risorse disponibili”. Sappiamo che quest’opzione ha avuto un discreto successo con chi porta un reddito aggiuntivo alla famiglia e può permettersi di lasciare il lavoro per accudire a nipoti, genitori e suoceri. Va tuttavia sottolineato che l’agevolazione per il pensionamento anticipato, riservata alle donne e non a chiunque abbia impegni gravosi di cura, è in realtà un modo per ribadire quello che si pensa sia la funzione primaria delle donne e risolvere in modo economico il problema della mancanza cronica di servizi, soprattutto per gli anziani.

Degli altri problemi riguardanti la parità di genere il contratto non parla, se si esclude un accenno alla violenza, da combattere con più poliziotti (uno per casa?) e con l’inasprimento delle pene. Niente su parità salariale, progressioni di carriera, partecipazione alle decisioni, lotta agli stereotipi.

Intanto a livello globale, il vento soffia a favore della parità. Le proteste delle donne nel mondo contro ingiustizie, disuguaglianze e violenza, si moltiplicano. Ma, come diceva Seneca, non c’è vento favorevole al marinaio che non sa in che porto vuole arrivare.