logo2Nel luglio 1848, a meno di un secolo da quando Betsy Ross cucì a mano la prima bandiera degli Stati Uniti d’America (1777), Jenny Hunt offrì un tè, nella sua casa di Waterloo (N. Y.), a quattro amiche quacchere impegnate con lei in ambito filantropico, religioso, nel movimento d’emancipazione dei neri e in quello rivendicazionista.

Tra un sorso e l’altro di tè, Elizabeth Cady Stanton, Lucretia Coffin Mott, Martha C. Wright, Mary Ann McClintock e la loro ospite, affrontarono i temi del dibattito socio-politico in circolazione negli ambienti più avanzati delle due sponde atlantiche e che già tanto aveva contribuito a diffondere le idee dell’Illuminismo, della Rivoluzione Francese (1789) e dell’Indipendenza americana (1776) giovandosi anche dei contatti internazionali, delle parentele, dei matrimoni, degli interessi culturali delle donne della nobiltà e dell’alta borghesia.

Le cinque, sedute al mitico tavolino da tè, erano donne bianche e del ceto medio appartenenti a un «network culturale e religioso che superava i confini ristretti delle piccole comunità del New England» come ricorda Raffaella Baritono (Il sentimento delle Libertà. La Dichiarazione di Seneca Falls e il dibattito sui diritti delle donne negli Stati Uniti di metà Ottocento).

Attente e ben informate, di alto profilo intellettuale, di grande coraggio e generosità, le cinque amiche e le loro conoscenti pativano la delusione di una Costituzione federale che non aveva riconosciuto diritti politici di voto a chi tanto aveva concorso all’Indipendenza.

Le donne continuavano a non votare e a rimanere a vita sotto ‘tutela’ maschile come da precedente Common law, legge inglese vigente nelle Colonie.

Stessa delusione avevano sofferto le Francesi escluse dalla cittadinanza da una Rivoluzione che anch’essa, senza di loro, non si sarebbe realizzata.

 

Due di loro, Elizabeth Stanton e Lucretia Mott – fondatrice dell’Associazione femminile per l’emancipazione dei neri e per i diritti delle donne e per il voto (Filadelfia, 1833), partecipata dalle bianche e dalle nere – s’erano conosciute alla prima Convenzione mondiale sull’antischiavismo (abolizionismo), la World’s Anti-Slavery Convention, organizzata dalla British and Foreign Anti-Slavery Society (12 giugno 1840), quando le donne, esponenti e finanziatrici di associazioni abolizioniste e di riforma, si erano viste rifiutare le credenziali, confinare in Tribuna, e non avere diritto di parola. Ad aggravare la discriminazione, la platea era composta da mariti, figli, parenti, amici di movimento, tra i quali James Mott (marito di Lucretia) ed Henry Stanton (marito di Elizabeth), entrambi alti esponenti dei maggiori movimenti abolizionisti americani.

Di rientro da Londra, l’impegno rivendicazionista e/o suffragista delle donne s’era moltiplicato  e in quel pomeriggio in casa Hunt, si fece il punto sulle posizioni dei vari movimenti  che se in ambito rivendicazionista erano molto avanzate non lo erano altrettanto, in America, sull’antischiavismo. Chi accettava l’emancipazione femminile non faceva spesso altrettanto con quella dei neri e viceversa. Una parte del mondo rivendicazionista non era abolizionista.

Con una fuga in avanti, lo Stato del New Jersey aveva concesso il voto alle donne (1808), seguito da Wyoming e Utah, due stati a maggioranza mormone e al fine di assicurarsi, tramite la maggioranza (femminile), la difesa del regime poligamico.

In tante avevano sperato che la Corte Suprema del Nord Carlolina estendesse alle donne ciò che aveva concesso agli uomini liberi di colore ma con doppia delusione avevano visto revocare anche quell’emendamento (1835).

Sul tappeto, anche altri questioni roventi come quella sul XIV emendamento. La Court of Common Pleas aveva ribadito l’esclusione delle donne dal suffragio ma le aveva incluse nella lista dei contribuenti. Lo aveva fatt ispirandosi al Reform Bill (la legge elettorale inglese del 1832), che aveva sostituito man (uomo) con male (individuo di sesso maschile), per impedire alle suffragiste (es. la Societies for Women’s Suffrage), di utilizzare a loro vantaggio, il ‘neutro universale’.  Questione antica l’intreccio tra diritti politici e tassazione.

L’unica donna che nella storia di Roma parlò in Senato, Ortensia, figlia di Q. Ortensio Ortalo, lo fece per difendere le matrone tassate per fronteggiare le crescenti spese di guerra e vinse sul principio che «chi non ha diritto alla rappresentanza non deve pagare le tasse.» (42. a.C.); lo stesso principio della Rivoluzione americana.

In casa Hunt fu deciso che non c’era più tempo per attendere e mediare. Occorreva agire subito e da sole volendo continuare la lotta suffragista e rivendicazionista e rifiutare l’enfasi della maternità repubblicana, pubblicamente osteggiata da Catharine Beecher, nel Treatise on Domestic Economy.

Anche l’affermato movimento revivalista enfatizzava il ruolo domestico delle donne ma non lo derivava dalla volontà divina bensì dal patto tra i sessi, privilegiando perciò l’identità di genere che riteneva superiore a ogni altra, anche di razza.

 

Si era alla vigilia della Guerra Civile (1850). L’avvenuta abrogazione della schiavitù nell’Unione (1808), aveva arroventato già difficili rapporti tra il Nord industrializzato e il Sud   agricolo e la Gold rush, la Corsa all’oro verso la California, stava per toccare l’apice.

Il 24 gennaio 1848, il carpentiere James Marshall raccolse sulle rive dell’American River un grumo luccicante, lasciandolo da parte. Il diario del mormone H. W. Bigler, altro operaio della segheria, riporta che fu la cuoca e lavandaia Jennie (Elizabeth Bays Wimmer), a prenderlo, metterlo a mollo nella lisciva e trarne la mattina dopo una splendida pepita d’oro.

La vera Corsa sarebbe cominciata a dicembre di quell’anno, all’arrivo a Washington di un cercatore d’oro con una scatoletta da tè piena di pepite. Le donne parteciparono numerose, con le famiglie o da sole, alla Corsa verso il West, via terra o seguendo il Canale di Panama (non terminato) o circumnavigando l’America del Sud. La loro generazione (Forty-niners), cambiò il volto al paese e ai due modelli femminili pionieristici – moglie dell’ufficiale di frontiera, colona che guida il carro del marito, riparata da un cappello di paglia, circondata da figli/e e con il fucile in mano per difendersi dagli ‘Indiani cattivi’ – s’aggiunse quello della cercatrice d’oro che vive e muore in solitudine e in eterna povertà.

Nella prima metà dell’Ottocento, i movimenti abolizionisti, tranne eccezioni, avevano perso l’incontro con il mondo indigeno, in rapida e violenta scomparsa, già chiuso nelle riserve, e per il quale non valse, neppure per i maschi, il XIV emendamento. Persero anche l’occasione di difendere le Native, offensivamente chiamate squaw, più disprezzate ancora delle schiave afro-americane che servivano da forza lavoro e da moltiplicatrici della stessa.

«Le storie di vita delle donne, qualsiasi forma prendano, devono essere pensate come parte di un dialogo con il dominio. Le vite delle donne sono vissute o all’interno o in tensione con i sistemi di dominio. Sia le storie di accettazione, sia le storie di ribellione sono risposte al sistema in cui si originano e perciò ne rivelano le dinamiche» scrive Annalucia Accardo (The Personal Narratives Group, Interpreting Women’s Lives, Indiana Uni. Press, 1989), parlando di  «resistenza, autorità e autorappresentazione» nelle autobiografie delle afroamericane (libere), precedenti la Guerra Civile (1850).

Tutta la letteratura delle Forty-niners e delle Slave narrative (le bianche che prigioniere dei Nativi), è andata persa e con essa pezzi importanti della Corsa e del clima del 1848.

I movimenti abolizionisti però conoscevano quei testi e colsero il parallelismo tra schiavitù e situazione femminile (esclusa quella delle Native). Un valore aggiunto nel mondo plurietnico e plurireligioso delle cinque amiche riunite a casa Hunt e che Elizabeth C. Stanton e Lucretia Mott mutuarono nel primo documento del femminismo americano, la Dichiarazione dei diritti e dei Sentimenti, stesa da Elizabeth C. Stanton e Lucretia Mott appena le cinque amiche decisero di proporre una piattaforma su cui convocare, entro tre giorni, un congresso finalizzato alla nasciata di un movimento per i diritti civili e politici e per il suffragio.

Stanton e Mott stesero il documento sulla falsariga della Dichiarazione dell’Indipendenza americana ispirandosi a quanto fatto da Olympe de Gouges con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791), pagata con la ghigliottina.

Entrambe conoscevano la letteratura rivendicazionista e abolizionista inglese, dalla seicentesca Mary Astell a Mary Wollstonecraft il cui Vindication of the Rights of Women (1792), era  il manifesto di gran parte del femminismo ottocentesco insieme al Von der bürgerlichen Verbesserung von Weiberdi della berlinese Teodora Gottlieb von Hippel che parlava di parità, suffragio femminile e di felicità.

La Dichiarazione dei diritti e dei Sentimenti s’ispirò dunque alla Dichiarazione d’Indipendenza delle Colonie americane da Giorgio V, indirizzandosi non al re ma a tutti gli uomini. Stanton e Mott vi affermarono principi di uguaglianza, essendo uomini e donne «dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili» quali «la vita, la libertà, il perseguimento della felicità», e vi aggiunsero «la leicità di disobbedire a un Governo che si dicesse ‘democratico’ ma che non garantisse i diritti e non li estendesse alle donne

Essendo «la storia dell’umanità una storia di ripetute offese e usurpazioni degli uomini nei confronti delle donne, allo scopo di istituire su di esse una tirannia assoluta», era lecito «disobbedire al dispotismo maschile e rovesciarlo per liberare un sesso femminile che aveva esaurito la pazienza.» Era giunto il momento non solo di esigere ma di ottenere!

 

Inserite in una forte rete relazionale e associativa, Elizabeth C. Stanton e Lucretia Mott riuscirono nell’incredibile impresa di perfezionare la piattaforma politica la mattina dopo, a casa di Mary McClintock (16 luglio 1848), di far comparire l’avviso per la prima convocazione,  sul quindicinale “Seneca County Courier”, la vigilia della stessa, e di vedere la folla premere, alle 10.00 di Mercoledì 19 luglio, alle porte della prescelta Cappella wesleyana di Seneca Falls.

Porte chiuse, per noncuranza o per ostilità, ma che un professore dello Yale College spalancò dopo essersi introdotto nell’edificio da una finestra.

Il programma previsto saltò subito. Quel giorno era riservato alle donne ma a presiedere l’assemblea fu James Mott e fu il Segretario Frederick Douglass a leggere la Dichiarazione dei diritti e dei Sentimenti raccogliendo 68 firme femminili e 32 maschili sotto quelle delle due proponenti. Con fervida oratoria, Lucretia Mott enumerò le vessazioni subìte dalle donne in ogni tempo e in ogni luogo; chiamò le donne a formare un movimento organizzato, di denuncia e di rivendicazione e che raggiungesse i suoi fini con mezzi pacifici.

La piattaforma di Stanton e Mott, avviata senza alcun sostegno, spesso in rotta con l’associazionismo misto sui diritti delle donne e principalmente su quello di voto, diventò in breve solidissima, intercettando una vera aspirazione collettiva alla parità e alla rappresentanza.

Stanton rivendicò la titolazione al sentimento che rimandava al mondo più intimo e alle forti emozioni inerenti il desiderio e le lotte per la dignità e la libertà delle donne.

Confessò anche l’umiliazione che lei e Mott avevano provato dovendo cercare i termini politici per la Dichiarazione negli scritti maschili e il disagio nel riscontrarli inadeguati.

Il successo della Convenzione e Dichiarazione si misura sulle importanti Risoluzioni.

Autoriconvocandosi per due settimane dopo, la seconda Convenzione si tenne nella Cappella Unitariana di Rochester il 9 agosto 1848. Presidente Abigail Bush, vicepresidente Laura Murray e tre Segretarie: Sarah Hallowell, Catharine A. F. Strebbins, Mary H. Hallowell.

In un crescendo d’iniziative e di adesioni si tenne a Salem (1849) la terza Convenzione (Salem, 1849), dove solo l’intransigenza di Elizabeth Stanton impose fedeltà alla Dichiarazione impedendo mediazioni e/o ritardi sulla rivendicazione del voto.

 

La Dichiarazione dei diritti e dei Sentimenti è lo specchio di un movimento per i diritti civili e politici della donna che contiguo ma non confluente in quello emancipazionista dei neri pur avvalendosi entrambi di doppie militanze e dei vantaggi d’immagine e di consenso apportati dalla prima candidatura di Victoria Woodhull e Frederick Douglass alla Presidenza degli Stati Uniti d’America con il Partito per l’uguaglianza dei diritti (1872).

Accusato di sostenere il suffragismo femminile e le femministe liberali, Douglass rispose che si sarebbe associato con chiunque per fare la cosa giusta e con nessuno per farne una sbagliata.

La Dichiarazione ha spunti di grande attualità tra i quali la messa al centro della donna e non definirla nelle relazioni (figlia, moglie, madre), ma come persona, con diritti di voto e di testimonianza nei processi, cosa che le Francesi avevano ottenuto il 25 settembre 1792 e che le donne dell’Unione ottennero molte decadi dopo.

L’impegno nella Convenzione non impedì a Stanton e Mott di esprimersi in altri ambiti socio-politici e di curare le attività filantropiche e religiose, anzi Stanton fu una pioniera sia del movimento nutrizionista vegetariano che della lotta alla crudeltà verso gli animali.

Alla collaborazione con Lucretia Mott, Stanton accompagnò quella con Susan Brownell Anthony, anche lei quacchera, esponente dei movimenti abolizionisti e del femminismo liberale, fondatrice del settimanale “The Revolution” uscito il 1° gennaio 1868 con il motto: «La vera Repubblica – gli uomini, i loro diritti e niente di più; le donne, i loro diritti e niente di meno.»

Dal 1851, quando si incontrarono, alla loro morte, Stanton e Brownell lottarono nel movimento rivendicazionista e il frutto maturo dei rispettivi interessi fu le Figlie della Temperanza: prima società femminile (statale) fondata per moralizzare i costumi ed estirpare la piaga sociale dell’alcoolismo. Anthony ne diventò la Segretaria a 29 anni (1849).

La Dichiarazione dei diritti e dei Sentimenti oltrepassò ben presto i confini dell’Unione dove, vent’anni dopo la morte di Elizabeth Stanton e quattordici anni, cinque mesi e cinque giorni dopo quella di Susan Anthony, le Statunitensi ottennero il voto.