“La cura del vivere” sta facendo discutere il femminismo. Io per esempio, dopo aver
letto questo documento delle donne del Mercoledì di Roma, mi sono sentita sollevata
e quasi più libera di essere davvero quella me stessa che sapevo di essere.Finalmente quella cura per cui avevo discusso con donne e uomini per molta parte
della vita, ma che non sono riuscita a sradicarmi e non solo per volontà
patriarcale, potevo riconoscerla ufficialmente come mia.
_ Senza scadere nella
“banalità”, nella mistica e nel “biologismo onnipotente” (Giordana Masotto) e
soprattutto senza “svincolarmi” da quella “maternità” che mi ha fattivamente
attraversato, e che, secondo Lea Melandri, fa ombra alla “cura” perchè possa dire
che non la pratico con il piacere di un “potere”.
_ Curiosa idea unica di potere,
piacere, biologia, maternità, onnipotenza, corpo, relazione, tempo, economia. Dentro
questi temi non c’è solo l’aspetto unico, spesso negativo del pensiero maschile.

In
questa fase della mia vita, so che hanno anche un lato positivo che posso guardare
in faccia a testa alta, dato dal mio punto di vista femminile, senza subire solo le
tenebre di queste parole. Dopo aver detto sì al lavoro, alla maternità, alla
politica voglio poter dire sì pubblicamente anche alla cura, magari proprio come a
un modello altro di riferimento, e il doc del mercoledì me ne ha sdoganato la
possibilità.
_ Non voglio lasciarmela sfuggire.

Finalmente, posso pensare alla cura
che ho svolto clandestinamente (sentendo che era fondamentale che la facessi) non
come a un lavoro fordista (il lavoro di cura che comunque c’è) di cui magari
vergognarmi un po’, ma come qualcosa, proprio “un resto” che se io non facevo
sarebbe mancato.

Perché sono io che sono in grado di leggere i bisogni delle
relazioni affettive che intrattengo (una differente idea di affetto come sesso
femminile?) e l’altro non so fino a che punto non vuole fare o non vede proprio. Se
questo vuol dire che coincido con la volontà patriarcale su di me, non so che farci.

Ne va dell’idea della qualità delle mie relazioni (condizionamenti
cultural/clericali e basta?). “Amore”, l’ha chiamato Lilli Rampello, quel “resto,
quel di più della cura” (Luisa Boccia) che non è welfarizzabile, che “la fa stare
bene nel mondo”. E l’amore nelle relazioni, nello stare nel mondo non lo temo se si
chiama cura.
_ E’ il contrario di morte, dolore, sacrificio, e di quella bellezza che
non è mai riferita al posto dove sono io, ma sempre al posto in cui sta l’altro
(emancipazionismo?), più bello del mio comunque anche se porta sempre alla crisi,
persino globale… Ma non era stato detto in un Sottosopra rosso che il patriarcato
era morto, simbolicamente e non solo? Se questo è vero, come anch’io penso e la
crisi globale mi autorizza a credere, allora è venuto il tempo “post-patriarcale”
(Ina Pretorius) in cui guardare alla cura come a una liberazione delle capacità
femminili.
_ Trasformandola laicamente (Letizia Paolozzi) in quel punto di forza su
cui fare “leva” (Alberto Leiss) per iscriverla in quel simbolico del mondo che
Riccardo Fanciullacci cercava per lei l’anno scorso a Torreglia, al seminario sulla
“Crisi dell’autorità maschile e paterna” e che non trovava.Riconoscerci tempi,
relazioni, economie, cura della vita differenti, senza la paura dei condizionamenti
faticosi del patriarcato, credo sia riconoscerci quell’autorità sulla vita che
possediamo e che esercitiamo in tutto il mondo (non solo per obbligo, per fortuna,
altrimenti saremmo davvero un po’ tutte sceme e allora avrebbero anche fatto bene a
imporcelo).
_ Tra l’altro con quell’obbligo, diceva Fanciullacci, il patriarcato
riconosceva le nostre capacità e aggiungo io: il suo bisogno. Il problema è
l’obbligo, per non leggere un proprio bisogno, non la cura e la nostra libertà di
stare con lei nel mondo senza imposizioni. Magari facendo adepti.
_ Dice il documneto del
mercoledì: “qui si rovescia l’idea della cura”…Credo che non dobbiamo avere paura
della nostra cura alle fragilità del mondo. A Milano il 18 febbraio ho avuto la
sensazione che la paura navigasse invece sotto la nostra pelle vedendo la difficoltà
di accettarla rovesciata, penso per il male profondo, inscritto nel nostro Dna,
della sua imposizione, ma che non ci fa bene nascondere solo perchè fa male.

Ci può
portare a ben altre svalutazioni e all’adozione di modelli stranieri fasulli.Se noi
sappiamo riconoscere il limite, questo sapere è la nostra forza e non è davvero una
debolezza, che appartiene invece a chi non sa vedere. E posso perfino arrivare a
credere che anche altri possano esercitare la cura, ma a patto che l’accettino
profondamente come necessaria dentro di sè dispiegandola nel loro mondo.

Dovremmo
smettere di pensarla negativa solo perché generalmente gli uomini non la fanno e
vogliono farcela fare e noi la facciamo. Gli uomini non sono la nostra pietra di
paragone, mi pare dicesse Carla Lonzi e sulla cura dobbiamo ragionare con
indipendenza.

Dall’avvento del controllo riproduttivo sul nostro corpo con la pillola
e del femminismo, non credo che se ci riconosciamo quel di più della cura e lo
nominiamo rischiamo di tornare a vivere nel chiuso delle case.

La difficoltà del
lavoro ormai sarà un problema di lungo periodo per tutti/e, (anche se le donne
lavorano fuori casa strutturalmente meno degli uomini e questo fa problema non solo
alla nostra libertà ma anche al suo modello) e dovrà per forza cambiare la sua
organizzazione novecentesca e sessuata se vogliamo insieme, donne e uomini, avere
una qualche prospettiva di vita più positiva di quella attuale. Ma dipenderà molto
anche da come riusciremo a vendere quel resto della cura al mercato della vita e del
lavoro portandoci finalmente tutte noi stesse (Diotima o Via Dogana?).

Certo le
prime a credere in noi dovremo essere proprio noi, senza lasciarci sopraffare dalla
fatica del “doppio sì”. Scegliendo di nominarla sempre, visto che non riusciamo a
sradicarcela. Voglio stare nel mondo con senso di me, sicura/e delle nostre
relazioni sapienti. Alcuni uomini stanno imparando a coltivarle pagandole come noi,
ma non possiamo continuare a pagare la cura che facciamo. Riconoscercela credo possa
voler dire proprio darci il potere di farla valere, finalmente, come moneta di
“scambio”.
_ Simbolicamente ci dobbiamo questo non ecumenico riconoscimento se non
vogliamo stare in pubblico senza monete fondanti, estranee a noi stesse.

Questa
nostra debolezza rafforzerebbe quel modo di fare patriarcato che abbiamo dichiarato
morto, prolungandocene l’agonia.

La cura per me è davvero l’inaspettata “rivoluzione
possibile” tra lavoro e vita che le donne possono “negoziare” (titolo dell’ultimo
incontro dell’Agorà del lavoro a Milano) in questo mondo a timbro maschile, ma molto
tossico per uomini e donne. Insicuro ormai persino agli adulti maschi.