“In Afghanistan si impara a ridimensionarsi e a dare il giusto peso alle cose: si può rimanere senza luce per due giorni di seguito, o senza l’acqua calda, o senza l’acqua addirittura. Per cui si diventa, per amore o per forza, pazienti. E io ho imparato proprio questo: a essere paziente, a rispettare tempi lenti e procedure talvolta incomprensibili…”Sono arrivata a Kabul nel mese più freddo dell’anno, quando le scuole sono chiuse e il ritmo della vita rallenta. Ho trovato un paese povero, dove le persone vivono di tè, riso e pane, unico cibo alla portata della gente comune, che vive costantemente in bilico tra povertà e sussistenza.

Dell’Afghanistan mi ha colpito la diversa concezione del tempo, più dilatata: attese che sfiniscono, pause lunghissime, ritmi molto più lenti rispetto ai nostri.
_ Qui serve tempo per ciò a cui noi non diamo più importanza. Eppure vivere quella dimensione, per undici mesi, mi ha fatto capire che esistono cose più importanti dell’efficienza e della rapidità; e cioè la lentezza, la cortesia delle persone, la gentilezza dei modi, che permettono di gustare l’attimo.

È per questo che in Afghanistan si impara a ridimensionarsi e a dare il giusto peso alle cose. Si diventa, per amore o per forza, pazienti. E io ho imparato proprio questo: ad essere paziente, a rispettare tempi lenti e procedure talvolta incomprensibili.

Ripensando a quel periodo, trascorso lavorando presso l’Ambasciata Italiana, tra cooperanti, giornalisti, dipendenti del Ministero degli Esteri, ma soprattutto costantemente in mezzo a tanti afghani, c’è una frase che mi torna in mente: “Kabul non è Roma”.

Scontato, vero? In realtà questa era una battuta che un’amica aveva fatto al termine di una conversazione semiseria sulle differenze esistenti tra la vita in Italia e quella in Afghanistan. Lì per lì quelle parole mi erano sembrate di un’ovvietà unica… Poi, un giorno, a distanza di due anni, ne avevo capito la forza.

E’ chiaro che Kabul non è Roma.
_ Ma questa frase, nella sua disarmante semplicità, racchiude tutto. Perché dice della difficoltà di vivere a Kabul, cercando di crearsi una vita normale, provando a rincorrere una quotidianità tra le bombe e i giardini pieni di rose, lo stress del lavoro e i posti di blocco delle basi militari. Cercando insomma un equilibrio in un mondo sospeso sull’orlo di un baratro.

Però dice tutto ciò con leggerezza, lontano da quei toni apocalittici di cui spesso leggiamo sui giornali. Sono parole che fanno sperare che un po’ di spensieratezza sia possibile anche a Kabul, dove regnano dolore e distruzione.
_ Perché nel lungo periodo si cerca di dimenticare il male, e piuttosto ci si sforza di guardare il bello che ci circonda. E soprattutto perché l’Afghanistan, nonostante la guerra, rimane una terra bellissima, e questo anche grazie al suo popolo.

Per tali motivi ho scelto queste parole come titolo del mio libro. A chi avrà pazienza e voglia di leggerlo, proverò a trasmettere la grande varietà di sentimenti provati durante i miei undici mesi afghani. Se ci riuscirò, anche solo in parte, sarò contenta.

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