Articolo di Marika Strano uscito il 10 giugno 2018 su Alfabeta2

“Sulle scale. Una fredda fragile mano: timidezza, silenzio: occhi scuri inondati di languore: logoramento.” (XL)

James Joyce, in questa breve ma significativa sezione del suo poemetto noto come “Giacomo Joyce” e ora ritradotto da Renzo Crivelli nel suo Un amore di Giacomo sembra voglia farci chiudere gli occhi e udire il silenzio. Il silenzio di chi? Di una delle sue giovani studentesse delle quali si era innamorato? Il silenzio di una prostituta di un bordello della zona triestina di Cavana? Di chi sono le mani delle quali ci fa immaginare il freddo? In questo caso, sembra plausibile che la sezione sia destinata ad una delle giovani allieve a cui lo scrittore irlandese, arrivato a Trieste nel 1904, dava lezioni di inglese.

Un silenzio che sembra essere proprio quello di una sala in una villa della ricca borghesia dove il giovane professore veniva condotto per impartire le sue lezioni. Aveva un modo “strano” di insegnare, Joyce, il suo metodo piaceva a queste giovani ed intraprendenti fanciulle che pendevano dalle sue labbra. Venivano indotte anche a scambiare opinioni, e la loro cultura era una potente arma di seduzione per il giovane. Era divertito dall’intrigante scambio di idee con quelle ragazze tanto delicate, esponenti di un mondo dal quale Joyce era attratto, ma che poteva solo guardare da lontano.

Il silenzio che echeggia in questa sezione così evocativa, sembra essere quello di Annie, o di Amalia, o di Emma, di una delle sue “amate” studentesse.

Joyce vorrebbe essere toccato da quella mano delicata e fredda e fragile: vorrebbe che quegli occhi potessero parlare il suo linguaggio, l’unico che il giovane uomo sembra conoscere e poter utilizzare.

Ecco perché, poi, il logoramento. Il silenzio fa troppo rumore nella mente di “Giacomo”. È un silenzio che lo porta ad annullarsi, a cercare una risposta dalla amata, una risposta che non arriverà mai. Non un “Si” o un “ti amo anch’io”.

Joyce, come ricorda appunto Crivelli, è come se si atteggiasse “a un bambino che deve ottenere considerazione da parte della donna in virtù della propria debolezza”. E quella ricerca quasi disperata di un segno o di una parola lo portano al desiderio di un “porto sicuro”: Nora, la compagna di una vita, colei che non lo ha mai abbandonato e mai lo farà.

La similitudine di Crivelli calza a pennello: “Nora è simile all’asta di un metronomo che oscilla, scandendo il tempo regolare della vita, fra l’allieva di Giacomo e la prostituta del bordello.”

La donna sembra essere il giusto mezzo nella vita di Joyce: angelicata, la Beatrice di Dante con un compito: traghettare la vita del suo peccatore dalla riva del peccato a quella della salvezza.

Ma anche la Nora delle lettere sconce, la donna capace di appagarlo sessualmente, di sedurlo e di dargli piacere, e con la quale riesce a fondersi fino a sottomettersi completamente a lei.

Quella ragazza che lascia la tranquilla Galway a soli diciassette anni per trasferirsi con lui nel Continente; che decide di seguirlo in “esilio” per poi, nonostante le sue “scappatelle” nei bordelli della zona di Cavana, rappresentare la salvezza da un’esistenza fatta di perdizioni e di ricerca di un piacere che mai riuscirà del tutto ad appagare.

Il logoramento di “Giacomo”, però, è dato anche dai sensi di colpa: “quelle dita fredde e quiete hanno toccato le pagine, oscene e belle, sulle quali la mia vergogna brillerà eternamente. Quiete e fredde e pure dita. Hanno mai sbagliato?” (XXXVIII).

Il senso di colpa è dovuto a quel “gioco di sguardi” tanto intrigante per lo scrittore.

Ecco perché Joyce sembra “spiare” attraverso “il buco di una serratura” le sue donne. In un primo momento le osserva, le guarda ammaliato e colpito. Non vuole farsi scoprire ad osservare i loro oggetti, le loro movenze, le capigliature o gli indumenti, potenti richiami al suo orecchio.

 

E quegli indumenti “hanno nella mente di Joyce una ‘persistenza emotiva e reale’ costante. Nel senso che hanno anche vita propria dopo essere stati indossati, tolti, e dismessi in un guardaroba.”

 

Quei pizzi, quelle sottovesti, le gonne lunghe fino alle caviglie che lascerebbero intravedere uno scorcio proibito di pelle se non fosse coperta dagli stivaletti talvolta con tacchi alti. Sono per lo scrittore occasione di una precisa e attenta descrizione di quel mondo alto-borghese da cui è attratto. Rappresentano “feticci”, e sono per lui pura seduzione. È sensibile perfino alle capigliature, il “lento svolgersi di capelli disciolti, cadono. Lei non se ne avvede e mi cammina davanti, semplice e fiera.” (XXX) Joyce, anche in questo caso, è molto ambiguo riguardo al destinatario di questa sezione: sembra provare piacere a  porre delle domande ai suoi lettori, anziché dare delle risposte. Sta parlando della prostituta che lo accompagna nella sua stanza di piacere o di un salotto di un’allieva altolocata?

Anche un semplice dettaglio nella sua mente fa scattare una scintilla.

Vuole, però, che il suo piacere rimanga segreto e nascosto, come del resto lo sono stati per tanti anni i fogli del poemetto.

Solo in seguito le sue donne potranno contraccambiare le sue attenzioni, come farà Leopold Bloom con Gerty MacDowell nel XIII episodio dell’Ulisse. Gerty cederà a quegli sguardi “di matrice erotica, seduttiva” solo dopo essersi resa conto di essere a sua volta guardata da Leopold.

Renzo Crivelli, nel suo libro “Un amore di Giacomo”, definisce il poemetto in prosa “Giacomo Joyce un “discorso amoroso fatto di immagini: frammenti di immagini, scorci di immagini, scorci di immagini segmenti di abiti che occhieggiano, esattamente come primi piani di occhi che “vestono” i segreti della mente.”

Il “Giacomo”, pubblicato da Ellmann integralmente nel 1968, è l’unica opera dell’autore irlandese interamente ambientata a Trieste. È un momento di sperimentazione per Joyce, e secondo Fritz Senn sembra “una serie di exercises de style” per i suoi futuri lettori  dell’Ulisse e, ancora più tardi, di Finnegans Wake.

Non può non saltare subito all’occhio dei lettori la “frammentazione” del “Giacomo”, aspetto molto discusso dalla critica: le sezioni, sono separate da grandi spazi vuoti, spesso imputati al desiderio dell’autore irlandese di non condividere con il pubblico quelle brevi riflessioni. Le sezioni sono state spesso considerate dei “paragrafi individuali” non connessi tra di loro e non destinate alla pubblicazione.

Ma è la bella grafia utilizzata da Joyce a suggerire che quei fogli fossero destinati alla pubblicazione. Il vuoto potrebbe rappresentare tutto quello che di non detto Joyce ci dice.

Uno degli aspetti più interessanti del libro di Crivelli è la smentita di una presunta misoginia dell’irlandese.  Infatti, il critico spiega che se da un lato è vero che Joyce “ha un modo tutto irlandese di guardare le donne” esternando opinioni negative su di esse, dall’altro questo è solo un primo “step” di un percorso che lo scrittore irlandese intraprenderà per poi provare a comprendere “cos’è davvero una donna”, come avverte Molly Bloom nel suo fatale monologo.

Renzo Crivelli -Un amore di Giacomo- Castelvecchi – 222, euro 22

Renzo S. Crivelli è professore emerito di Letteratura Inglese all’Università di Trieste. È autore di saggi e monografie di letteratura inglese, irlandese, canadese, italiana. Studioso di Joyce, è presidente della Trieste Joyce School. Tra i suoi libri, nello spe­cifico, Gli accordi paralleli: letteratura ed arti visive del Novecento (1979, con uno studio su Joyce e il pittore Paul Klee), James Joyce: itinerari triestini (1996), Una rosa per Joyce (2004), James Joyce: Scene di un arrivo (2008), Joyce in scena. Trittico triestino (2016).