L’Italia unitaria non è frutto del caso; è stata pensata e perseguita con tenacia e sacrificio da donne e uomini insieme nelle tante forme in cui s’articolano le lotte di liberazione, nel nostro caso azzerando vari Stati peninsulari (monarchie, ducati, repubblica di Venezia) a favore del Regno d’Italia e poi della Repubblica italiana.Un percorso celebrato, al femminile, dalla mostra al Complesso del Vittoriano “{Le donne che hanno fatto l’Italia}”, patrocinata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dall’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano e della Presidenza della Regione Lazio.
Nel lungo elenco dei ringraziamenti, anche quelli ad Archivia (Casa internazionale delle donne), che ha contribuito alla preziosa documentazione.

Una mostra, ideata da {{Emanuela Bruni}} e coordinata da {{Alessandro Nicosia}}, che evoca l’inarrestabile progressione del soggetto donna sulla scena peninsulare, tra le più arretrate e difficili culturalmente per la forte tradizione misogina, dura a morire, di cui si hanno intorno innumerevoli esempi. Una mostra che conforta e che piace nell’articolazione logistica e didattica, che ha scelto {{la strada sicura delle eccellenze (riconosciute) e delle testimonianze preziose }} (giornali d’epoca, volantini, testi olografi, cimeli, filmati “Luce”); un compendio del multiforme sui criteri dell’accettabilità, della fama e dell’eccellenza, pienamente colto nel titolo che non cita il Risorgimento ma “l’Italia”.

{{Sono in tante}}, da Cristina di Belgiojoso alle balie ciocare, da Maria Mazzini alle maestre del secolo scorso; dalle 21 donne dell’Assemblea Costituente a Rosina Ferrario che nel 1913 prese il primo brevetto di pilota di arei; da Ada Negri la prima ammessa all’Accademia d’Italia (1940), all’indimenticabile attrice Anna Magnani; da Tina Anselmi la prima a dirigere un Ministero (del Lavoro) nel 1976, a Oriana Fallaci, giornalista e scrittrice, fino a Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la medicina (1968) per le sue ricerche sul NGF (fattore di accrescimento della fibra nervosa).

Ci sono “i volantini” delle patriote e il manifesto dell’Unione donne Italiane (oggi Unione Donne in Italia), dell’8 marzo 1952; una lunga serie di “prime donne” nella letteratura, nelle arti, nelle scienze, nella politica, e, per il percorso della “mostra nella mostra”, lo “{Schema luminoso variabile}” di {{M. Varisco}} (1962).

Volendo {{ritrovare le radici,}} è da porre all’ingresso di una mostra ideale delle donne che hanno fatto l’Italia le parole di {{Eleonora de Fonseca Pimentel}}, intellettuale, poeta, scienziata, attivista politica, giornalista, protagonista della Repubblica giacobina napoletana, che nel vedere i Francesi lasciare Napoli e consegnare la Repubblica, priva della loro mano armata, alla vendetta borbonica che si prese anche la sua vita, scrisse:
“L’Italia farà da sè! L’Italia resterà una nazione guerriera, non dall’altrui ferro cinta; si comprenderà la grande verità che un popolo non si difende mai bene che da se stesso, e che l’Italia indipendente e libera è utile alleata; schiava è di peso; perché la libertà non può amarsi per metà, e non produce i suoi miracoli che presso i popoli tutto affatto liberi!” (“il Monitore” del 25 aprile e del 14 maggio 17…).
L’eclettica mostra al Vittoriano è divisa in cinque sezioni curate da {{Marco Pizzo ed Emanuele Martinez }} ({Le Donne del Risorgimento italiano e Donne insieme}), {{Miriam Mafai }} ({Le Protagoniste e Le Prime}), {{Lea Mattarella }} ({Le Donne e l’Arte}), ripercorre gli epocali cambiamenti intervenuti dall’Unità d’Italia al 2011 e realizzati “anche con mano femminile, con coraggio, determinazione, passione.”

“Le donne che hanno fatto il Paese sono state tante: da sole o unite in esperienze collettive, hanno saputo affermare progressivamente le proprie idee, guadagnando posizioni di rilievo e una rinnovata concezione di sé.”

Rimane tra i più commoventi cimeli{{ il brandello di tricolore cucito da }} {{Giuditta Bellerio Sidoli}}, chiuso in una piccola teca e affiancato da sintetica biografia. In verità un po’ troppo breve per una delle poche teoriche della politica repubblicana, oltre che attivista, due volte esiliata, madre privata dei figli dal suocero per motivi politici, figura di valenza europea, ispiratrice, ovunque, d’insurrezioni e una delle referenti dei moti insurrezionali di Reggio Emilia (1831) dove consegnò alla “Guardia Civica” la bandiera tricolore sventolante sul Palazzo del municipio e oggi nel cittadino Museo del Tricolore; la prima a guidare i patrioti nelle strade vestita di bianco, rosso e verde; icona del patriottismo – figlia e moglie di patrioti – ben prima di ospitare nella sua casa di Rue de Féréol n. 57, a Marsiglia (1831), principale centro propulsore del pensiero unitario e delle politiche di liberazione, un esule pallido e povero, Giuseppe Mazzini, da cui ebbe un figlio, morto piccolo; con cui ideò e fondò il giornale “La Giovine Italia” e con cui diffuse la Giovane Europa di cui fu la tesoriera.

La verità storica e le ricerche archivistiche hanno restituito {{a Giuditta Bellerio Sidoli}} {{lo spessore politico della grande patriota ed emancipazionista }} che fu, così come hanno spazzato via la retorica sulle “cucitrici di bandiere” che da sole o a gruppi non trascorrevano ore tranquille nel cucito e nel ricamo ma lo facevano rischiando di essere scoperte, denunciate e imprigionate per attività eversiva, perciò di nascosto, spesso, anche dalla famiglia.

{{Rispetto alla cancellazione }} effettuata nella mostra del Novecento alle Scuderie del Quirinale del soggetto politico – i movimenti femministi e femminili come si diceva all’epoca – che aveva messo al centro il soggetto donna e prodotto rilevanti cambiamenti nella società, nel costume e nelle leggi, la mostra al Vittoriano non censura ma {{sceglie l’allusione}}: racconta “le donne che hanno fatto l’Italia” nella seconda metà del Novecento attraverso gli occhi profondi di {{Franca Viola che rifiutò il matrimonio “riparatore”}}; le tavole cronologiche sulle leggi ottenute con tante lotte (parola ingombrante); attraverso le eccellenze nei vari settori cui spetta un riconoscimento in più per essere riuscite a sfiorare quel famoso “tetto di cristallo” che ogni volta che viene incrinato altrettante viene riparato.

Nella miscellanea, molto bello, ma si sente la mancanza appunto di qualche scatto in più,{{ il percorso della fotografia sociale}} con maestre e bambine in grembiulino bianco e gran fiocco; allieve, di ogni età e povertà, alla macchina da cucire; partigiane e Gruppi di Difesa della Donna; mondine e contadine nei campi uno dei quali scatti, bellissimo, fa da manifesto della mostra.