Anche il 18 aprile  c’è stata una manifestazione di migliaia di palestinesi al confine tra Gaza e  Israele, con morti morti e feriti. Sono già 35 i morti palestinesi, centinaia i feriti.  L’esercito continua a sparare sui manifestanti al di là della barriera/confine.  I “ragazzi” palestinesi ci hanno abituato a vederli  ‘armati’ di sassi, la loro ‘arma’ fin  dalla prima Intifada.  Oggi si aggiungono gli “F16  palestinesi”, aquiloni con i colori  della  bandiera  che  vengono  “armati”  con  un  filo  di  spago  a  cui  è  legata  una  bottiglia  di  plastica  riempita  di  benzina,  a  cui  cercano  di  dare  fuoco  il  più  vicino  possibile alla barriera/confine, facendo attenzione  a non esporsi troppo ai cecchini  e a farsi proteggere dal fumo nero dei copertoni dati a fuoco, altra ‘arma letale’  della popolazione di Gaza.  Non vogliamo guardare solo al confine di Gaza, vogliamo guardare alla Palestina e  a  Israele,  che  festeggia  in  queste  settimane  i  70  a nni  della  sua  fondazione.

Per  questo vogliamo condividere il discorso del grande  scrittore David Grossman alla  cerimonia  annuale  (17  aprile)  che  riunisce  i  parenti  israeliani  e  palestinesi  di  vittime delle guerre (come suo figlio Uri) e degli  attentati.

 

David Grossman

Cari amici (ndr. e care amiche)

In  questi  anni  ho  incontrato  molte  famiglie  in  lutto .  Ho  detto  loro,  in  base  alla  mia  esperienza,  che  persino  nel  più  profondo  dolore  vale  la  pena  ricordare  che  ciascun  membro  della  famiglia  ha  il  diritto  di  piangere  la  scomparsa  nel  modo  che  ritiene  più opportuno,  a  seconda  del  suo  carattere,  a  seconda  della  sua  interiorità.  Nessuno  può  insegnare a un altro come piangere una scomparsa. Se questo vale per le famiglie private,  vale anche per la più grande «famiglia in lutto» in  Israele. C’è un profondo sentimento che  ci unisce, un senso di destino comune, e un dolore  che solo noi conosciamo, per il quale  non esistono parole per descriverlo all’esterno, al la luce del giorno. Perciò se l’espressione  «famiglia  in  lutto»  è  genuina  e  sincera,  vi  preghiamo  di  rispettare  il  nostro  percorso,  perché merita rispetto.

Questa settimana, Israele celebra il 70° anniversario della sua fondazione.  Io spero che  potremo  celebrare  ancora  questa  ricorrenza  per  molti  anni  a  venire,  con  le  future  generazioni di figl*, nipoti e pronipoti che vivranno qui, a fianco di uno stato palestinese  indipendente, in pace, sicurezza e creatività, ma soprattutto nel tranquillo trascorrere dei  giorni, in buoni rapporti di vicinato. Mi auguro ch e tutti si sentiranno ugualmente a casa  propria. Come definire la casa? La casa è il luogo  i cui muri – i cui confini – sono chiari e  pattuiti. La cui esistenza è stabile, inoppugnabile  e serena. I cui abitanti conoscono bene i  suoi codici intimi. I cui rapporti con i vicini sono basati su norme concordate. Un luogo che  proietta un senso di futuro. Noi israeliani, persino dopo 70 anni – a prescindere dai mille  discorsi patriottici che saranno pronunciati nei pr ossimi giorni – non siamo ancora arrivati  a  quel  punto.  Non  siamo  ancora  a  casa.  Israele  è  stato  fondato  per  far  sì  che  il  popolo  ebraico, che mai si è sentito a casa propria in giro per il mondo, potesse finalmente avere  una  casa.  E  oggi,  70  anni  dopo,  malgrado  tante  meravigliose  conquiste  nei  più  svariati  campi, il forte stato di Israele somiglia piuttosto  a una fortezza, ma non ancora a una casa.

Quando Israele opprime un altro popolo per 51 anni,  e occupa le sue terre, e mette in  piedi una realtà di apartheid nei territori occupati, ecco che diventa molto meno di una  casa.  E  quando  il  ministro  della  difesa  Lieberman  tenta  di  impedire  ai  palestinesi  costruttori di pace di partecipare a un incontro come questo nostro, Israele non è la mia  casa.  E  quando  il  governo  israeliano  imbastisce  accordi  discutibili  con  l’Uganda  e  il  Ruanda, ed è pronto a mettere a rischio la vita dei  richiedenti asilo e di deportarli in luoghi  a loro ignoti, forse incontro alla morte, Israele è  molto meno di una casa ai miei occhi. E  quando  il  primo  ministro  diffama  e  accusa  le  organizzazioni  per  i  diritti  umani,  quando  cerca il modo di attuare leggi che aggirano la corte suprema di giustizia, e quando si crea  un  clima  di  costante  opposizione  alla  democrazia  e  alla  magistratura,  Israele  diventa  ancora meno di una casa. Per tutti.

Israele ci fa soffrire, perché è la casa che vorremmo avere . Perché riconosciamo quanto  sia  bello  per  noi  avere uno stato,  e siamo orgogliosi delle sue  scoperte  e  conquiste  in  tantissimi campi, nell’industria e nell’agricoltura, nella cultura e nell’arte, nella tecnologia  e nella medicina, e in campo economico. Ma soffriamo nel vedere fino a che punto questo  ideale è stato snaturato. Le persone e le organizzazioni qui riunite oggi, guidate dal Forum  dei genitori e delle famiglie e dei Combattenti per  la pace, e molte altre simili, saranno  forse coloro che contribuiranno di più nel trasform are Israele in una casa, nel vero senso  della parola. Aggiungo che intendo donare la metà dell’ammontare del Premio di Israele che mi verrà conferito giovedì (l’Israeli Prize per la letteratura, ndr) in parti uguali al Forum dei genitori e delle famiglie e ad Elifelet, un’organizzazione che si occupa dei bambini (ndr. e delle bambine) dei (e delle) richiedenti asilo, quei bambini (e quelle bambine) le cui scuole d’infanzia sono chiamate “i capannoni dei bambin*.”

A mio avviso, queste organizzazioni svolgono un compito sacro, o per dirlo in altre parole, svolgono le azioni semplici e umane che il governo dovrebbe accollarsi. Una casa. Una casa dove vivere una vita in pace e sicurezza. Una vita limpida. Una vita non sottomessa – per mano di fanatici di ogni risma – agli scopi di qualche visione totalitaria, messianica o nazionalistica. Una casa i cui occupanti non siano strumenti per un’idea che taluni credono più grande o più nobile di loro. Una casa in cui la vita sarà misurata in standard umani. Dove un popolo potrà alzarsi la mattina e sentirsi persone. E queste persone sanno di vivere in un posto che non è degradato e corrotto, bensì davvero uguale, non insidiato da invidie e aggressività. Uno stato gestito semplicemente per favorire coloro che vi abitano, per tutti coloro che vi abitano, con comprensione e tolleranza per i molti dialetti che si rifanno all’identità israeliana. Perché “queste e quelle sono le parole di Israele vivente”, per richiamare il verso del Talmud che recita, “queste e quelle sono le parole del Dio vivente”. Uno stato che non agisca in preda a emozione e impulsività, né in una contorsione infinita di trucchi e ammiccamenti e manipolazioni. E indagini poliziesche e altri espedienti. Mi auguro che il nostro governo saprà essere meno scaltro e più saggio. Ci è consentito sognare. Ci è anche consentito ammirare le conquiste fatte finora. Vale la pena combattere per Israele. E auguro le stesse cose anche ai nostri amici (ndr. e delle nostre amiche) palestinesi: una vita di indipendenza, pace e libertà, nella costruzione di una nuova nazione. Spero che tra settant’anni i nostri nipoti e pronipoti saranno qui, israeliani e palestinesi, e ciascuno di loro canterà la sua versione dell’inno nazionale. Ma c’è un verso che potranno cantare insieme, in ebraico e in arabo: “Una nazione libera nella nostra terra.” E forse allora, nei giorni a venire, questo auspicio sarà finalmente una realtà per entrambi i nostri popoli. Il testo è stato pubblicato integralmente dal Corriere della Sera (18 aprile 2018).