Per commentare la situazione attuale in Palestina riportiamo un articolo di Neve Gordon, docente  di Scienze Politiche all’Università Ben Gurion in Negev e membro della Facoltà di Diritto e Relazioni  Internazionali della Queen Mary University di Londra.

Invece di chiederci quando i Palestinesi produrranno il loro Gandhi,  dobbiamo chiederci quando Israele produrrà un leader che non cerchi di soggiogare un  popolo sotto occupazione usando violenza e spargendo morte.  Per decenni i Sionisti hanno dato la colpa ai Palestinesi per il progetto coloniale in atto da  parte di Israele. “Se solo i Palestinesi avessero un Mahatma Gandhi,” hanno detto molti  liberali israeliani, “l’occupazione finirebbe subito.”  Ma se uno volesse davvero trovare dei Mahatma Gandhi palestinesi, basterebbe che  desse uno sguardo alle immagini dei dimostranti nei telegiornali di venerdì sera (30 marzo 2018) .

Circa 30.000 Palestinesi venerdì 30 marzo 2018 hanno partecipato alla Marcia nonviolenta del Ritorno, che si  proponeva di impiantare alcuni accampamenti a diverse centinaia di metri dalla  recinzione militarizzata che circonda la Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era quello di  protestare contro la carcerazione a cui sono sottoposti nella più grande prigione a cielo aperto.   avi. Infatti, bisogna tener presente che il 70% della popolazione di Gaza è costituita da  rifugiati del 1948, le cui famiglie possedevano delle terre in quello che è poi diventato  Israele.  Mentre gli abitanti di Gaza marciavano verso la recinzione militarizzata, io sedevo a tavola  con la mia famiglia recitando l’Haggadah per la Pasqua ebraica, in cui si dice che “in ogni  generazione, il dovere di ciascuno è quello di considerare se stesso come qualcuno uscito  dalla prigionia d’Egitto.” In altre parole, mentre i soldati sparavano proiettili letali contro  i dimostranti pacifici, i genitori di quei soldati venivano invitati ad immaginarsi cosa vuol  dire vivere a Gaza e a chiedersi come ci si possa liberare da quella prigione. E mentre la  mia famiglia cantava “Essi non devono più soffrire in catene, libera il mio popolo,” le  agenzie riferivano che il numero di Palestinesi uccisi era arrivato a 17, e altre centinaia  erano stati feriti.

L’accusa che i Palestinesi non avrebbero adottato metodi nonviolenti di resistenza e  sarebbero quindi corresponsabili dell’oppressione e delle espropriazioni israeliane, non  solo disconosce l’enorme asimmetria nei rapporti di forza tra colonizzatori e colonizzati,  ma non considera la storia politica delle lotte anticoloniali, compresa la stessa storia  palestinese. Anzi, ignora completamente il fatto che il progetto coloniale di Israele è stato  sostenuto usando una logorante, protratta e diffusa violenza, mentre i Palestinesi –  contrariamente a quello che riportano certi media occidentali – hanno sviluppato una  lunga e robusta tradizione di resistenza nonviolenta. Inoltre, la richiesta di adottare  un’ideologia nonviolenta cancella completamente la storia di altre lotte di liberazione: da  Algeri al Vietnam e fino al Sud Africa.

La nonviolenza palestinese 

La Marcia nonviolenta del Ritorno di venerdì 30 marzo 2018 e la reazione che ha suscitato in Israele non  sono certo un fatto eccezionale nella lunga storia della resistenza palestinese. La marcia  era stata organizzata in coincidenza con il Giorno della Terra, che commemora quel  tragico giorno del 1976 in cui le forze di sicurezza israeliane risposero a uno sciopero  generale e ad una protesta di massa organizzata da cittadini palestinesi di Israele la cui  terra era stata confiscata. In quella protesta pacifica, sei Palestinesi furono uccisi e altri  cento feriti dall’esercito israeliano.  In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza la situazione è sempre stata molto peggiore, poiché  ogni forma di resistenza palestinese nonviolenta è stata proibita subito dopo la guerra del Fare riunioni politiche, innalzare bandiere o altri simboli nazionali, pubblicare o  distribuire articoli o immagini con connotazioni politiche o persino cantare o ascoltare  canzoni nazionalistiche –per non parlare dell’organizzazione di scioperi o dimostrazioni–  sono state attività illegali fino al 1993 ed alcune sono ancora illegali nell’area C. Qualunque  tentativo di protestare in uno di questi modi andava invariabilmente incontro a una  risposta violenta.

Tre mesi dopo la guerra del 1967, i Palestinesi indissero con successo un vasto sciopero  nelle scuole della Cisgiordania: gli insegnanti non si presentarono al lavoro, i ragazzi  scesero in strada per protestare contro l’occupazione e molti commercianti chiusero inegozi. In risposta a questi atti di disobbedienza civile, Israele mise in atto severe misure  di stile poliziesco, che andavano da coprifuochi notturni ad altre limitazioni di movimento,  al taglio di linee telefoniche, all’arresto di leader e ad un aumento delle molestie contro  la popolazione. In via generale, questo è diventato il modus operandi di Israele di fronte  alla continua resistenza nonviolenta palestinese.  Sembra davvero che ci sia una diffusa amnesia sui modi in cui Israele ha reagito a queste  tattiche “alla Gandhi.” Quando i Palestinesi hanno proclamato scioperi commerciali in  Cisgiordania, il governo militare ha chiuso dozzine di negozi “fino a nuovo ordine.”

Quando hanno cercato di imitare lo sciopero dei trasporti di Martin Luther King, le forze  di sicurezza hanno immobilizzato completamente tutti gli autobus locali.  Durante la Prima Intifada, poi, i Palestinesi adottarono strategie di disobbedienza civile di  massa, tra cui scioperi del commercio, boicottaggi di merci israeliane, una rivolta fiscale e  proteste quotidiane contro le forze di occupazione. Israele rispose con l’imposizione di  coprifuochi, restrizioni alla libertà di movimento e arresti di massa, per ricordare solo  alcune delle reazioni violente. Ad esempio, tra il 1987 e il 1994, i servizi segreti  interrogarono più di 23.000 Palestinesi, ovvero una ogni 100 persone residenti in  Cisgiordania e Gaza. Sappiamo ora che molte di queste persone vennero torturate.  Perciò, la tragedia è che il massacro di Pasqua a Gaza è una semplice aggiunta alla lunga  lista di atti di resistenza nonviolenta che sono andati incontro a violenza e repressione  da parte di Israele.

“Le rivolte sono il linguaggio di chi non viene ascoltato”  Cerchiamo di immaginarci per un momento cosa vuol dire vivere in una prigione a cielo  aperto, anno dopo anno. Immaginiamo che noi siamo i prigionieri e il guardiano può  decidere che cibo possiamo mangiare, quando possiamo avere l’elettricità, quando  possiamo avere cure mediche specialistiche e se possiamo avere abbastanza acqua da  bere. Immaginiamoci anche che, se ci avviciniamo alla recinzione, possiamo esser fatti  bersaglio in ogni momento del fuoco delle guardie. Quali atti di resistenza nonviolenta ci  restano dai fare? Camminare pacificamente verso la recinzione? Migliaia di Palestinesi lo  hanno coraggiosamente fatto e molti ne hanno pagato l’ultimo prezzo.  Sebbene Gaza sia, sotto molti aspetti, in una situazione unica, i popoli indigeni si sono  sempre trovati in condizioni simili nel corso della storia. Questo è stato riconosciuto dalle  Nazioni Unite quando hanno affermato “la legittimità della lotta popolare per la  liberazione dal dominio straniero e coloniale e dall’altrui assoggettamento, usando ogni  mezzo disponibile, compresa la lotta armata.”

Lo stesso Gandhi pensava che in certi casi  la violenza può essere una scelta strategica adeguata. “Io credo,” scrisse. “che se l’unica  scelta fosse tra viltà e violenza, sceglierei la violenza… Perciò io raccomando anche che  chi crede nella violenza venga addestrato alle armi. Preferirei che l’India facesse ricorso  alle armi per difendere il suo onore, piuttosto che diventare o rimanere vilmente un  imbelle testimone del proprio disonore.”  Qualcuno potrebbe desiderare che le cose andassero altrimenti –ed io sono certamente  uno di questi– ma nessun progetto coloniale è mai stato sconfitto senza che i colonizzati  usassero la violenza contro gli oppressori.  Ironia della sorte, questo è anche uno dei messaggi chiave della cerimonia di Pasqua.

La  storia dell’Esodo racconta che Mosè si rivolse più volte al faraone, chiedendogli di liberare  dalla servitù i figli di Israele. Ma il faraone ogni volta si rifiutò. Fu solo dopo che un’orrenda  violenza si era scatenata contro gli Egiziani che gli Israeliani ottennero la libertà.  Naturalmente questa non è una cosa che uno si dovrebbe mai augurare, ma se si guarda  alla risposta di Israele di fronte alla marcia palestinese nonviolenta, è evidente che  dobbiamo al più presto capovolgere la richiesta sionista se vogliamo evitare altri  spargimenti di sangue: invece di chiedere quando i Palestinesi produrranno un Mahatma  Gandhi, dobbiamo chiedere quando Israele produrrà un leader che non cerchi di  soggiogare un popolo sotto occupazione usando violenza e spargendo morte. Quando, in  altre parole, Israele si libererà della sua etica faraonica e si renderà conto che i Palestinesi  hanno diritto alla libertà?   Neve Gordon

Neve Gordon  E’ un intellettuale schierato nel”campo della pace” in Israele, gravemente ferito durante il servizio  militare a Rosh Hanikra. Suoi articoli sono pubblicati dal NYT, da Haaretz,The Guardian, The  Washington Post.  Sono pubblicati in italiano due suoi libri: “L’occupazione israeliana” (ed. Diabasis, 2016) e “Il diritto  umano di dominare” (ed. Nottetempo).  1° aprile 2018 -(traduzione di Donato Cioli)

L’articolo è stato proposto dall’ UDI di CATANIA – Mediterranea – a cura carlapecis@tiscali.it – 4 aprile 2018