Durante le conferenze pubbliche che si sono tenute il 27 novembre a Milano a Palazzo Marino e il 28 novembre a Torino all’Università degli Studi e presso il Circolo dei Lettori. Il presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente Janiki Cingoli ha intervistato Loubna Bensalah. E’ una giovane attivista marocchina internazionalmente nota.  Nel 2016, poco più che ventenne, ha camminato per 1000 Km in Marocco, per conoscere sé stessa e le altre donne marocchine, sviluppando il progetto “Walking with her”. Nel 2017, ha marciato per altri 100 km in Tunisia, incontrando nuclei di donne nei piccoli villaggi rurali. E’ stata premiata dall’l’UNESCO, a Parigi, il 22 Aprile di quest’anno. E’ stata docente di comunicazione dell’università Mohammed V di Rabat. Nel 2018, le sue marce sono diventate un progetto intitolato “Kayna – alla conquista dello spazio pubblico attraverso la marcia delle donne”: incontri dedicati alle donne per camminare, per fermarsi e discutere, ma anche per occupare simbolicamente spazi solitamente riservati agli uomini, come le spiagge.    In questi giorni, Loubna è in Italia per raccontare la sua storia.

Ho avuto l’onore di accompagnarla per due giorni, in occasione di iniziative organizzate da CIPMO a Milano e a Torino, e poche volte mi sono trovato vicino a una donna così creativa e innovativa, oltre che così prestigiosa e rappresentativa come lei. Non mi sono fatto sfuggire l’occasione di parlare con lei e, data la confidenza che si era creata, abbiamo toccato anche aspetti meno conosciuti della sua esperienza di vita.    Loubna, il tuo percorso in Marrocco e in Tunisia è avvenuto interamente a piedi, la prima volta che hai fatto 1000 km in Marocco: ma non hai avuto paura di essere assalita? Molestata? Ho conosciuto personalmente di una giovane artista, Giuseppina Pasqualino, che aveva fatto una cosa simile in Turchia, vestita da sposa: io l’avevo fortemente sconsigliata. Poi l’hanno trovata massacrata e stuprata, nei campi.  Per questo ti chiedo se hai avuto paura.

Francamente no. In effetti molte persone mi hanno detto “sei matta”, “è molto pericoloso”, ma nel momento in cui ho preso la mia decisione non volevo altro che partire, senza considerare null’altro. Forse ho sbagliato, ma nella mia prima esperienza, in Marocco, avevo fiducia dei miei connazionali, nella cultura marocchina dell’ospitalità. Sono stata educata così, all’accoglienza ed all’ospitalità, al dono si sé. Ho sempre ritenuto che dalla nostra cultura non possa derivare alcunché di male.

Ma tu mi ha detto che fra gli uomini marocchini, oltre all’elemento di ospitalità e all’accoglienza, vi è una componente violenta, e quindi una donna che va in giro da sola può essere vittima di violenze.

Può darsi. Ma è un rischio che allora non ho calcolato. Onestamente, se ci basiamo sui commenti violenti che vediamo sui social network, arriviamo a concludere che il Marocco ed altri paesi sono effettivamente caratterizzati da violenza. Ma non è quello che ho visto io nel mio cammino. La gente era veramente accogliente, ospitale: volevano che io stessi da loro, mangiassi con loro, dormissi a casa loro. Sono persone che abitano in piccoli villaggi, non sono connessi sui social, ma hanno la cultura dell’accoglienza del forestiero. Durante il mio cammino in Marocco, ho percorso la Costa atlantica, dove abitano persone che hanno l’abitudine di incontrare turisti, gente che va negli stabilimenti balneari a fianco a casa loro.

Riguardo la violenza, credo tuttavia che essa non smetta di aumentare. Penso che adesso, se dovessi intraprendere di nuovo i miei 1000 km, ci penserei due volte. Sono ormai tre anni da quando ho concluso il mio cammino, ma oggi davvero ci penserei due volte.

Mi potresti spiegare meglio il processo che ti ha spinto a prendere questa decisione? Intendo, cosa è avvenuto nelle profondità della tua anima, quale processo mentale hai seguito? non penso sia stato il semplice ghiribizzo di viaggiare.

Da quanto sono piccola ho sempre sognato di esplorare, di cercare, di viaggiare. Con il tempo, queste idee sono sparite. Ho tentato di cercare, ma più che altro ho “ricercato” a casa mia. Perché proprio a casa mia e sulle donne? Perché è lì che la faccenda si fa interessante.  Quando sono uscita dal mio ambito familiare e mi sono messa faccia a faccia con il resto della società, ho incominciato a vivere da sola, in quel momento ho realizzato che nella società non c’è uguaglianza fra uomini e donne. Lo percepivo sempre più giorno dopo giorno: nel mio lavoro non avevo il diritto di parlare, di discutere o di fare politica, di agire nella società proprio perché donna, e dunque priva di capacità di analisi. E quegli episodi si sono moltiplicati. Una donna non è capace di analizzare questo genere di problemi: una donna non legge, deve occuparsi della cucina o dei suoi capelli.

Queste non erano chiaramente le mie priorità: le mie priorità erano la società marocchina, cosa succede al suo interno, etc. Quindi spesso io ero l’unica ragazza fra tanti uomini, ragazzi e compagni di classe a discutere di politica marocchina, di quello che succede in Marocco, di calcio. Per esempio, io sono stata una delle poche ragazze a discutere del 20 febbraio e della Primavera araba; ero una delle poche a voler capire, comprendere, analizzare.

Ne avevo abbastanza di quel mondo, e ho deciso di distaccarmene, soprattutto per la condizione della donna. Provavo verso un rigetto, un rifiuto di tutto, perché non trovavo il mio posto in quanto individuo, in quanto donna, in quanto giovane nella società. Non avevo più fede nella politica e nella società, provavo una repulsione. Mi dicevo: “No, il Marocco non è questo. Non può essere questo”. Il Marocco con cui mi confrontavo ogni giorno non era il Marocco che volevo.

Ma la tua è una famiglia borghese o comunque benestante, o no?

La mia è una famiglia normale, diciamo, modesta, della classe media. Abbiamo vissuto un pochino meglio rispetto alla classe media.

Mi dicevi che non hai corso pericoli.

In realtà non ho detto di non aver corso pericoli. Non avevo paura di correre rischi, ma non vuol dire che non ne abbia corsi.

Mi hai raccontato di quell’episodio con la polizia che ti ha fermata con due tue amiche, mentre camminavate durante la notte. Tu in quella circostanza hai reagito molto duramente, vero?

Sì, ma questo è accaduto durante la mia vita quotidiana, non durante il mio cammino. Stavo cenando con due amiche in un ristorante siriano a Rabat, Yamal Acham, verso ottobre. Siamo uscite verso le 23, non c’era un’anima, e c’era un’auto che ci seguiva, con due ragazzi a bordo che hanno cercato di rimorchiarci. Un’auto della polizia però li ha seguiti e messi in fuga, con la loro auto. La polizia però si è trattenuta con noi, per chiederci cosa i due giovani volessero da noi, e noi abbiamo risposto, un po’ ingenuamente, che tentavano di molestarci, come spesso accade nel nostro Paese. Il poliziotto mi ha risposto: “Beh, è normale. Che cosa volete che facciano vedendo tre ragazze sulla strada, una delle quali ha una sigaretta in mano? Cosa andate a cercare?”. La mia risposta di ragazza ventunenne fu questa: “Mi scusi, ma non c’è nessun luogo in Marocco in cui è proibito ad una donna di camminare alle 23, né un luogo in cui sia proibito ad una donna di fumare una sigaretta. Al contrario, c’è una legge contro le molestie sessuali. Dunque, non dovreste essere qui a parlarci di come comportarci, ma dovreste inseguire quei ragazzi, fermarli e chiedere loro che cosa volessero da noi. Noi volevamo solamente mangiare al ristorante in tutta tranquillità”. Ma è stato in fondo un episodio isolato.  In Tunisia, invece, ogni 48 ore mi trovavo in una stazione di polizia, soprattutto nel Nord-Ovest tunisino. A volte venivo accusata di furto di reperti archeologici, altre volte di essere una spia per conto del Marocco o del Mossad (dato che in Marocco c’è una nutrita comunità ebraica). Mi sono state rivolte tutte le accuse più assurde e stupide: nessuno riusciva a capire perché una donna marciasse da sola per i villaggi ed insistesse nel dormire presso gli abitanti del luogo.

Parli spesso della differenza fra la legge e la pratica.

In Marocco ci sono leggi contro le molestie sessuali, leggi sull’eredità, ma la popolazione, mi hai spiegato, non conosce queste leggi e la mentalità comune è qualcosa di differente. Addirittura, se tu vuoi applicare la legge, la gente ti guarda come un marziano. Il problema nel mio Paese (o regime, o quello che è) è la mentalità, per lo meno in materia di genere. Le leggi ci sono, ma la mentalità va in un’altra direzione. In primo luogo, le leggi sono votate ed approvate dal Parlamento, ma sono lontane dalla gente, che non ne è a conoscenza. In secondo luogo, la gente non si sente rappresentata da quelle leggi, essa rifiuta il femminismo. In terzo luogo, la gente non è pronta ad un cambiamento così radicale. Non si può dall’oggi al domani imporre al Marocco le leggi sviluppate dell’Europa.

E’ una fortuna che ci siano le leggi, io sono a favore del cambiamento, ma trovo che sia più importante cambiare la mentalità che non le leggi. Devono essere sviluppati ed adottati meccanismi e procedute perché tali leggi siano ben comprese, assorbite dalla popolazione e accettate: la gente non si deve sentire obbligata a fare cose con cui si sente in disaccordo. È essenziale spiegare loro il processo e le ragioni che ne sono alla base, altrimenti la legge non sarà mai applicata.

Tu pensi che il tuo lavoro abbia in qualche misura cambiato la mentalità delle donne in Marocco?

Credo che il mio lavoro (insieme a quello di molte comunità ed associazioni di promozione del ruolo della donna, soprattutto dopo il movimento Me Too), ha avuto ed avrà un effetto. Il proverbio marocchino calzante è: “Una mano da sola non applaude. Per applaudire ne servono due”. Io, da sola, non posso cambiare il mondo, né un’associazione da sola può farlo. La sola società civile nemmeno. Abbiamo bisogno che il Governo marocchino si ponga in ascolto della società civile, che faccia degli sforzi per cambiare la situazione. Abbiamo bisogno di comunicazione, abbiamo bisogno di donne che siedano nel governo, ma non come sottosegretari o portavoce solo per dire “wow, una donna nella foto generale”. Io voglio donne veramente al governo, che governino davvero.

Tu avrai avuto una quantità immensa di incontri nel tuo percorso, un aspetto fondamentale del tuo lavoro e della tua esperienza umana. Qual è l’episodio più importante ed emozionante che hai vissuto in quest’esperienza?

Ne ho vissuti diversi ed a vari livelli. Ci sono stati molti episodi, di solito quando arrivo nei piccoli villaggi le donne mi vedono un po’ come “il prete”, nel senso che vengono da me e si confessano, poiché sanno che io non le giudicherò, per loro rappresento la donna emancipata.  Se devo parlare di una donna che mi ha davvero scioccata – non so dire né come né perché –, sceglierei una donna di un piccolo villaggio, il cui marito mi aveva invitato a casa loro. Lei era veramente giovane: lui avrà avuto circa 35 anni, lei 24-25, ma aveva già due bambini, ciascuno dei quali avrà avuto 5 o 6 anni. Mi sono subito domandata a quale età si fosse sposata, e le ho chiesto come mai si fosse sposata così presto ed avesse già due figli. Abbiamo passato ore a discutere, e lei mi ha raccontato la sua giovinezza.  Terminati gli studi, voleva diventare pittrice e disegnatrice, ma non ne aveva i mezzi. Poi si è innamorata di una persona ed è rimasta con lui 4 anni, ma dopo quel periodo, proprio quell’uomo, con cui aveva avuto un rapporto completo in tutti i sensi, sposò un’altra donna. Lei si è trovata quindi non più vergine (la verginità da noi è qualcosa di essenziale, per una ragazza di 18 o 19 anni, come lei all’epoca) e senza più un compagno. Ha sofferto molto, non sapeva come fare, ma per fortuna un uomo ha chiesto la sua mano alla sua famiglia. La sua famiglia era molto contenta, soprattutto perché riteneva il pretendente molto comprensivo, soprattutto riguardo alla perduta verginità.

Ma in realtà la ragazza si era fatta rifare la verginità, pagando un costoso intervento. Io le chiesto come avesse fatto a permettersi l’operazione, data la sua condizione economica svantaggiata, e lei ha risposto che era stato proprio il pretendente a pagarle l’intervento. Vedendomi perplessa, mi ha spiegato che è il marito a dare i soldi alla moglie per comprare un tavolo, un letto, quanto serve per arredare la loro futura casa: così, andando al mercato, lei gli chiedeva sempre somme leggermente più alte di quelle necessarie per gli acquisti, in modo da mettere da parte qualche soldo per l’operazione a Marrakech.

Io le ho chiesto se non sia stata un po’ ipocrita questa sua scelta di far pagare ad altri il frutto della sua “colpa”. Lei mi ha risposo di no: “sono loro a volere la mia verginità, non io. Dunque, me la pagano loro!”.

Come vede la tua famiglia questa tua esperienza?

Di buon occhio, credo. Non ci sono attriti per questo. Penso che la mia famiglia abbia una sola preoccupazione, che io sia talmente coinvolta nel sociale che finisco per non avere più molti soldi e non mi occupi di me. Sanno che mi faccio in quattro per i miei progetti per le donne, e mi chiedono sempre: “Ma quando pensi alla tua vita personale? Quando pensi a te stessa, al tuo futuro?”.