Attiviste per i diritti delle donne indiane valutano positivamente lo spazio che i mass media hanno finalmente dato al fenomeno degli stupri che riconducono alla cultura patriarcale. Arundhati Roy, nota scrittrice e attivista per i diritti umani, accusa in un video l’esercito indiano e la polizia di usare lo stupro come un’arma contro la popolazione.Sui giornali indiani si moltiplicano le storie, spesso tragiche, di donne che dopo aver tentato di denunciare gli stupri subiti sono state ignorate o derise dalla polizia e additate come colpevoli dalle proprie comunità di appartenenza.
Alcune come {{Paramjeet Kaur}} si sono suicidate, e ora la sua famiglia si chiede dove fossero tutti coloro che protestano nelle piazze mentre la loro figlia diciottenne veniva invitata dalla polizia a cercare un accordo con i propri violentatori.
A seguito delle insistenze della ragazza, che avveva riconosciuto i propri aggressori, i violentatori sono stati chiamati presso la caserma della polizia e trattenuti per dei giorni dalle 10 alle 17 e poi rilasciati per tornare il giorno dopo. Contro di loro, a più di 20 giorni dalla denuncia non era stata formalizzata alcuna accusa.
Alla vittima, in compenso, veniva chiesto e richiesto di descrivere lo stupro nei più minimi dettagli.
Nel frattempo la polizia faceva pressioni sulla famiglia, povera, di Paramjeet Kaur per dissuaderli dal continuare a portare avanti la denuncia.
Fino ad arrivare all’oscenità finale: la proposta di sposare uno dei violentatori per chiudere il caso, pratica molto usata nel sud est asiatico.
Ed è proprio l’indifferenza della polizia davanti alle denunce di crimini sessuali che le attiviste denunciano con più forza.

{{Dove nascono i violentatori}}

In un editoriale apparso su {The times of India} {{Prerna Sodhi}}, scrive “la cosa che mi ha ferito di più quando ho letto del caso di New Delhi è stata la brutalità.[…]
Quando guardo alle migliaia di persone che protestano per le strade chiedendo una legge, più sorveglianza da parte della polizia e giustizia per le vittime di stupro, la mia mente vola al luogo in cui lo stupro è nato: le nostre case.
Loro cercano gli occhi di milioni di donne che non domandano giustizia ma sono costrette a vivere giorno dopo giorno con i loro violentatori. Io mi guardo intorno e vedo milioni di donne che convivono ogni giorno con l’orribile cosa che gli è capitata non per mano di uno sconosciuto, ma di una persona amata.
Uno zio, un marito, forse un nonno o un padre. Esse vivono in silenzio perché questo è stato insegnato loro, e questo è quello che gli stessi uomini hanno imparato da quella che chiamiamo famiglia.
Ci sarà mai giustizia per loro, mi chiedo? Cosa potrà cancellare le cicatrici permanenti che hanno subito? Qualcosa potrà riparare il tradimento delle loro famiglie? La cosa più importante: non saremo noi a coprire gli orribili atti di quegli uomini che ora diciamo che sono per noi una minaccia? Non stiamo combattendo per una causa usando un doppio standard?
Conoscendo il mio paese solleverà un putiferio parlare di questo o anche solo accennare a questo aspetto dello stupro. Perché è proprio questo che rende evidente quanto sono vuote le nostre famiglie patriarcali.
Ma la soluzione non è estirpare {il violentatore} dai membri maschi della nostra famiglia. O meglio ancora fare in modo che esso non nasca.
[…]] Mi rattrista vedere che lo stupro è ancora considerato come qualcosa che avviene di notte o che si svolge nel buio.
Nessuno, fino ad ora, ha riflettuto e detto come madre “daremo ascolto quando una ragazza verrà a lamentarsi dei nostri figli” “non diremo alle nostre figlie di tacere e andare avanti” “non sminuiremo la reputazione delle ragazze e glorificheremo i figli”.
Piuttosto stiamo qui a gridare più polizia! caduta del governo! e pena capitale.
Le prime due cose possono anche succedere ma la terza pone una seria domanda: siamo pront* ad applicarla a quelle persone che chiamiamo membri della nostra famiglia?
Siamo pront* per questo cambiamento?”

{{Più sorveglianza o una nuova cultura?}}

Sulla stessa onda scrive {{Kavita Krishnan}} sul sito australiano {Green left}: “La rabbia spontanea e la determinazione di assicurare i colpevoli dello stupro di Delhi è bella da vedere. Ma ancora meglio sarebbe la voglia di rivolgere questa rabbia contro la società e la cultura che giustifica lo stupro e la violenza sessuale. La violenza sessuale è un modo di imporre la disciplina patriarcale alle donne. Le donne che sfifano questa disciplina vengono punite per la loro temerarietà con lo stupro e la paura di essere stuprate lavora come un censore permanente su ogni decisione che le donne sono chiamate a prendere.
La “protezione” dalla violenza sessuale molto spesso si limita a restrizioni imposte alle donne: il coprifuoco negli ostelli universitari è la più comune, seguita da un codice di abbigliamento, restrizioni sulla mobilità e nelle amicizie (soprattutto quelle maschili), dissuasione a scegliere di frequentare università lontane da casa ecc..
Ma se la violenza sessuale e le misure comunemente adottate per contenerla respirano la stessa aria patriarcale non c’è da stupirsi che le donne si sentano soffocare”

{{Presidi di polizia o presidi dei diritti di libertà?}}

Kavita Krishnan condanna nel suo articolo l’atteggiamento diffuso di dare alle donne stesse la colpa di aver “invitato” allo stupro con i loro comportamenti. Ma coglie nelle manifestazioni di piazza di questi giorni una novità: molte donne sfidano la cultura dello stupro esibendo cartelli del tipo “Non insegnare a me come devo vestirmi, insegna a tuo figlio a non stuprare”.
“Quando alle donne viene offerta protezione in termini patriarcali (ovvero imponendo restrizioni e regole) è tempo di dire “Grazie, ma no!” – scrive.
Non abbiamo bisogno di salvaguardia, dobbiamo piuttosto chiedere che governo, polizia, giustizia presidino il diritto delle donne di essere avventurose, di vestirsi e andare dove vogliono e a qualsiasi ora del giorno o della notte.
In questo senso vanno le, poche, campagne contro gli stupri della polizia di Delhi che suggeriscono che gli stupratori non sono “veri uomini” indicando il machismo come la soluzione del problema quando invece ne è la radice.

{{Stupro: arma di repressione sociale o frutto di una cultura patriarcale?}}

Non bisogna poi dimenticare gli stupri, spesso legati al sistema delle caste o a conflitti locali, che pur essendo figli della stessa cultura patriarcale hanno complesse implicazioni religiose e di difesa dei diritti economici di pochi contro i molti.
Lo denuncia in una[ video intervista->http://www.youtube.com/watch?v=tjzl4xAhrao] (in inglese) in cui commentava la morte della studentessa violentata la notte del 16 dicembre a New Delhi Arundhati Roy che, a proposito delle proteste di massa che si sono tenute in tutta l’India, ha dichiarato “Il vero problema è che questo crimine ha creato una tale ondata di protesta perché a commettere il crimine sono stati dei criminali poveri, un venditore di verdure, un autista, contro una ragazza della classe media. Ma quando lo stupro è utilizzato come strumento di dominio da parte delle caste superiori, l’esercito o la polizia non viene mai punito nessuno”.

Alla domanda se a seguito dell’indignazione e delle proteste ci sarà qualche effettivo cambiamento per le donne Roy ha risposto “probabilmente ci saranno alcune nuove leggi, sarà aumentata la sorveglianza, tutte misure che proteggeranno le donne della classe media. Ma nei casi in cui gli stupri vengono perpetrati dall’esercito o dalla polizia è inutile istituire nuove leggi. Cosa si può fare quando è proprio la polizia che brucia i villaggi e violenta le donne? Ho ascoltato personalmente molte testimonianze di donne che me lo hanno confermato”.

{{Kavita Krishnan}} contesta l’interpretazione di Roy secondo cui le piazze si sarebbero mosse solo perché la vittima apparteneva alla classe media e ricorda alla scrittrice che anche le donne della classe media non sfuggono al meccanismo perverso che le addita come vittime “illegittime” per i loro abiti sexi, perché fumano in pubblico ecc. e conclude che non è possibile creare una sorta di gerarchia tra le vittime di violenza basandosi sull’idea che lo stupro di una donna della classe media è un “po’ meno stupro” di quello su una donna appartenente alle caste inferiori o povera e quindi vittima di altre oppressioni. “Non c’è nessuna ragione, afferma Krishnan, per cui la solidarietà delle piazze non debba estendersi alle dalit o alle donne di altre minoranze religiose”.
“E’ vero – conclude Krishnan – che c’è in atto una campagna del governo e della polizia, appoggiati dal {Times of India} contro i poveri e i migranti, ma perché assumere come fa Roy che le proteste nelle piazze siano contro i poveri” e non contro la cultura dello stupro?

{{
Mass media e disinformazione}}

Dal canto loro molti giornali hanno cavalcato la protesta contro gli stupratori proponendo la loro idea di ordine sociale e di “salvaguardia” delle indiane basata sulla castrazione chimica per i violentarori o addirittura la pena di morte. Dalle loro pagine continuano poi a diffondee l’idea che la violenza sessuale abbia a che vedere con il desiderio sessuale piuttosto che con l’odio e con la cultura patriarcale.
Governo e polizia hanno invece preferito addossare ogni colpa ai poveri che affollano la città di Delhi e che ne avrebbero, con la loro presenza, “snaturato” la vita sociale: tra questi naturalmente i migranti sono il nemico numero uno da combattere per la difesa delle donne.
Ma in India come nel resto del mondo le statistiche parlano chiaro: i violentatori sono per il 90% padri, mariti, fratelli, vicini di casa, fidanzati, amici, ovvero persone delle quali le vittime si fidavano e con cui avevano rapporti affettivi.

{{Fonti}}: ibtimes.com, timesofindia.indiatimes.com, india.blogs.nytimes.com, greenleft.org.au, dnaindia.com, Associated Press

{{Foto}}: transhumanisten.files.wordpress.com