“..oggi si tratta di pensare alla “cura” come alla pratica che riapre il conflitto tra capitale e vita.” (dal documento DEI LEGAMI E DEI CONFLITTI)

Mercoledì 21 maggio, al Centro Donna Liliana Paoletti Buti ( Largo Strozzi 3 Livorno) abbiamo incontrato  Letizia Paolozzi   ed il suo libro Prenditi cura  (Editore et. al. dollana «Due»  2013),  il racconto di quasi due anni di discussioni in giro per l’Italia, (da Tor­re­glia a Livorno e Reg­gio Emi­lia, pas­sando per Milano, Roma, Pae­stum, Napoli….), tra molte donne e alcuni uomini, aperte dal documento “La cura del vivere”, elaborato nel settembre 2011 dalle femministe del Gruppo del mercoledì.

 L’incontro è stato anche l’occasione per avviare il confronto sul nuovo documento delle femministe del mercoledì Dei legami e dei conflitti Che accade se l’Europa si prende cura?

 

 

 

Riportiamo gli appunti che Paola Meneganti ha preso durante l’incontro:

Incontro dell’associazione Evelina De Magistris con Letizia Paolozzi, 21 maggio 2014.

(P.M.)

 Il tema è LA CURA, a partire da libro di Letizia “Prenditi cura”, che nasce, scrive l’autrice, dal “viaggio di una parola-chiave, sgomitolata con tonalità, colorazioni, vocaboli diversi dialogando con tante donne (e alcuni uomini) in un percorso e in molti spostamenti che mi hanno fatto muovere la mente. Erano in campo soggettività, pratiche politiche ma anche radici culturali appartenenti alla varietà dei luoghi di quelle Italie che hanno accolto il nostro ragionare sulla Cura del vivere”.

“Cura” è una parola politica, nel senso che rimanda certamente a idee, progetti, riflessioni, ma, soprattutto, a pratiche. La profonda modificazione avvenuta nelle tradizionali culture politiche del Novecento, il cambiamento delle soggettività, la rivoluzione avvenuta nel rapporto tra i sessi ci chiama a rimettere in discussione “le tradizionali barriere, materiali e simboliche, tra produzione e riproduzione”. La cura, nell’elaborazione del “Gruppo del mercoledì” (sviluppata negli anni e che ha dato via a quattro documenti: il Manifesto alla sinistra “Dire no ai giorni del tempo presente” del 2008,  “Il coraggio di finire”, del 2009, “La cura del vivere”, del 2011 e “Dei legami e dei conflitti”, del 2014), è elaborata come nuovo paradigma di convivenza, come ribaltamento, come lavoro del vivere. Cruciale è il  tema del resto della cura: “il lavoro trasformativo del soggetto che cura, e che nel curare, nell’agire la cura che ha scelto liberamente, ne scopre e mostra la potenza” (Bia Sarasini).  Con un rischio: che il prendersi cura, in dialogo costante con l’etica della responsabilità, dall’essere un di più con un forte  potenziale rivoluzionario (il ripensamento dei rapporti di produzione, del vivere il mondo, delle relazioni) divenga “minaccia che venga ricacciata indietro la loro (delle donne) soggettività, evocandole come risanatrici del Pil”. Come dice Lea Melandri, il rischio è che “doti e talenti femminili” vengano considerati “una risorsa da sfruttare”.

 

L.P.  Viviamo  un momento terribile, in cui domina la totale semplificazione del discorso. Rispetto al percorso compiuto dal Gruppo del mercoledì, questo non ha sempre vissuto una situazione politicamente paradisiaca, ma abbiamo anche molto questionato. E abbiamo sofferto molte cose, nelle nostre vicende, nelle nostre storie personali. Poi, la morte di Laura Gallucci ci ha fatto domandare se dovevamo continuare. Proseguire ci sembrava quasi una sorta di tradimento nei suoi confronti. Ma siamo andate avanti.

C’è stato il Manifesto alla sinistra, poi Il coraggio di finire: c’erano corpi a noi vicini che avevano bisogno di aiuto, e c’era la fine dei partiti di sinistra. Con quel testo, l’abbiamo nominata: una di noi, Bia Sarasini, si è candidata alle elezioni regionali del 2010, e abbiamo tentato di far dialogare Polverini e Bonino, candidate alla presidenza della Regione Lazio, in un contesto diverso: non c’è stato niente da fare.

Poi abbiamo scritto La cura del vivere: è stata l’apertura di molte strade. Alcune si sono un po’ interrotte: ne segnalo due. 1) La questione del welfare: è vero che non rivendichiamo che tutto stia nel pubblico (il tema del “resto” della cura), ma ora, tutto della cura tende a tornare sulle nostre spalle. 2) La questione dell’accoglienza. La grande pressione della crisi fa sì che il razzismo si manifesti apertamente: da parte di molti, si pensa che chi viene dal mare porti via lavoro e pane. Anche l’Europa, non solo l’Italia, non li vuole accogliere. E un’idea percorre a volte anche i migliori tra noi: magari li invitiamo a cena, ma poi devono dire quando se ne vanno, perché non ce la facciamo a tenerli. E c’è anche il senso di colpa di coloro che arrivano: stanno qui, ma vogliono mantenere legami e affetti con la situazione da cui vengono, con le loro radici. E le radici, insegna Arendt, se sono forti, una volta ripiantate, possono attecchire, ma, se la crisi ti tritura, è difficile.

Quindi, individuo nel welfare e nell’accoglienza i temi in sospeso nel testo del 2011. Ci vorrebbe uno scambio tra i molti soggetti che agiscono su questi piani, ma, per dire, anche nel sindacato c’è ottusità.

Rispetto alla prospettiva europea, centrale nell’ultimo documento, anche a Roma il tema è emerso poco, ha interessato poco. È un dato su cui riflettere.

Ci sono poi i problemi, le diffidenze espresse sul tema della cura: nel libro, Lea Melandri esprime la sua diffidenza, perché “le donne stanno trasferendo la cura dal privato nella vita pubblica (a Milano fanno un  maternage simbolico  al sindaco) e dentro i movimenti, i partiti […] Dopo aver curato il tenero figlio, il marito, il padre, gli anziani, adesso curiamo la crisi. Spero che si capisca che dopo l’esaurimento delle risorse si sta esaurendo pure la cura e l’amore femminile”. Alcune giovani donne, rispetto alla cura, hanno un atteggiamento di rifiuto.

Noi stiamo dentro il capitalismo ed il mercato: possono sedurci, ma anche aprire pratiche e orizzonti, senza che ce ne facciamo fagocitare. Bisogna pretendere che il sistema pubblico ci dia quello che è necessario, e anche di più: una legge come quella di Fornero sulle pensioni disconosce totalmente il lavoro di cura delle donne, e c’è stata, anche da parte del sindacato, pochissima opposizione. Ci vuole un riconoscimento, in qualche modo: una sorta di defiscalizzazione, per es., di una parte del tempo di lavoro femminile. “Io sono per l’uguaglianza, non per la parità”, perché occorre preservare la differenza. La neutralizzazione della differenze è uno dei pericoli più grandi che viviamo.

La cura ha origine femminile (un elemento che troviamo in Gilligan, e anche già in Habermas e Kristeva), ma la cosa importante è l’esperienza della cura che stanno facendo gli uomini. Forse è, nello smarrimento maschile,  un volersi appropriare di una dimensione femminile? Non lo so, ma sono contenta.

Cura è una parola polisemica: a me piace dire prendersi cura, in modo attivo, senza alcun senso di subalternità. La cura delle relazioni è un paradigma, un ribaltamento dell’ordine esistente. La politica delle relazioni insegna che libertà non significa “faccio come mi pare”, ma introduce il tema della dipendenza, nel senso della dipendenza di ogni essere umano rispetto agli altri esseri umani, fondamentale in un momento in cui individualismo e narcisismo sono così forti. C’è una forte tendenza a non prendersi la responsabilità, a ritrarsi, in una sorta di “effetto tartaruga”. La pratica politica della cura significa invece mettere al centro le relazioni: al centro non c’è il possesso, non c’è lo sfruttamento. Un mondo in cui la produzione sia insieme alla riproduzione.

Dobbiamo cercare altre forme del vivere. Ci sono episodi di cura del vivere: i GAS, il microcredito, gli sportelli autogestiti per lavoratori/imprenditori in difficoltà. Tutto questo cos’è? Tentativi di sopravvivere nella crisi o tentativi di costruire qualcosa di diverso?

Dobbiamo costruire una qualità del modo di fare comunità. Tra le perle della cura, inserisco la proposta del servizio civile di cura: delle persone, dei territori, della natura. Una sorta di apprendistato della responsabilità, per citare Simone Weil. Inserisco l’esperienza di via Fondazza, a Bologna: esperienza di rammendo del territorio, di cura della propria città. Il rischio è quello del comunitarismo americano, di quelle realtà apprezzate da Tocqueville: la chiusura in sé. Ma siamo in ricerca di cura e di qualità del vivere.

 

Tra gli elementi del dibattito successivo:

  • L’esperienza delle passeggiate naturalistiche a Livorno, in un luogo pubblico – un parco, una parte di territorio collinare –che è oggetto di incuria e, in alcune parti, chiuso all’uso pubblico. La cura è cura delle relazioni, della memoria, dei luoghi.
  • Sentirsi divise tra l’amore e la necessità di prendersi cura, e il timore di non far scoppiare e contraddizioni. L’ambivalenza.
  • Il rischio della cura è che, agendo sul “resto”, quel “di più” non monetizzabile, non retribuibile, non misurabile, ci si esponga al rischio dello sfruttamento di questo surplus
  • Una certa difficoltà rispetto al riconoscimento del lavoro di cura è dato anche dalla nostra storia di emancipate, che si sono definite spesso in contrapposizioni e nel rifiuto del “destino alla cura”
  • Ma lavoro di cura e cura non possono essere disgiunti
  • Sulla questione del non riconoscimento del lavoro di cura delle donne neppure a livello previdenziale (v. la riforma delle pensioni): è, da una parte, il frutto delle politiche paritarie (rammentiamo la sindacalista di Brescia che diceva: con la parità, le donne hanno “ottenuto” di lavorare in fonderia, e di fare i turni di notte); dall’altra, il risultato del “ricatto” europeo (“bisogna allinearci all’Europa: un elemento, questo, che, insieme ad altri, può spiegare la diffidenza/il disinteresse rispetto al tema ‘Europa’)
  • Lavorare sulla cura significa anche: trovare elementi di cura in ambiti insospettabili, operazione possibile guadando le cose da un altro punto di vista; individuare e disvelare i comportamenti di incuria altrui
  • Riprendendo le parole di Laura Fortini a Roma, il 10 maggio: il “rischio” della cura è che, dando risposta all’emergenza, non la faccia mai scoppiare. L’esempio del lavoro: non è vero che non ci sia lavoro, ce n’è e ce ne sarebbe moltissimo, ma non lo si vuol pagare, non lo si vuol retribuire
  • Il tema della menzogna e del bisogno di verità: lottare per la verità nel discorso pubblico
  • E molto altro ancora …