Sono Monica, le dico porgendole la mano. Sono suor Maria. Dice. Buon ritorno, Maria, sottolineo omettendo quel ‘suora’. So che non la rivedrò più, ma so anche che molte giovani appassionate e sorde al dubbio e al pensiero critico, nel mondo, ne incontrerà ancora molte. Ave, Maria.Ho un numero di telefono salvato sul cellulare che non riesco a cancellare. E’ il numero fisso di un monastero di clausura, in Toscana.
Di solito cancello dal mobile tutti i dati che posso eliminare, perché non sono della generazione nativa digitale formata al pensiero dell’accumulo e dello spazio tecnologico infinito dei cellulari smart.

Io no: continuo a pensare che se appesantisco il telefono (quasi si trattasse di massa fisica) potrebbe succedere qualcosa di brutto, così rassetto il telefono come farei con la libreria in disordine.

Ma cancellare quel numero avrebbe il significato di rescindere l’ultima, impalpabile traccia del passaggio fugace nella mia vita di una creatura aliena e quindi, per ora, quel numero sta lì.
So bene che si è trattato solo di un incontro di qualche ora su un treno regionale, ma una parte di me sente che è stato qualcosa di più: due mondi che non hanno mai avuto alcun contatto, il mio e quello di Maria, (suor Maria, come terrebbe di certo lei a definirsi, ma come si chiama lo scoprirò solo alla fine), si sono trovati nello stesso spazio per un soffio. Per me, di certo, s è trattato di una visita a un altro pianeta, senza usufruire di un viaggio interplanetario.

Il treno sta per arrivare, già si sente il suo stridìo prossimo alla stazione quando una voce da dietro mi parla con un tono d’urgenza sottile: “Mi farebbe una carità?”.
Mi volto, mentre assorta sto sistemando sulle spalle le varie borse che non riesco mai a evitare di caricarmi nei viaggi. Resto interdetta, perché davanti a me c’è una suora, coperta interamente dall’abito grigio, con soltanto il volto visibile; molto diverse dalle comboniane, che non riesci a distinguere in quanto suore perché vestono senza segni religiosi né velo.

E’ giovane, gli occhi sono chiari e l’espressione ansiosa e interrogativa.
Io pure devo avere un grande punto interrogativo stampato sul viso, perché la prima cosa che ho pensato vedendola è come sia possibile che le suore facciano l’elemosina.

Oddio, sto pensando, come la carità? E prima che possa dir qualcosa arriva il chiarimento.
“Se prende questo treno mi fa fare una telefonata al convento? Devo avvertire la Madre superiora che sono in anticipo, e non so come fare, non ho il cellulare – dice”.

Ora è chiaro. Le sinapsi si rimettono in moto e cerco di organizzare un’espressione meno stordita. “Certo – rispondo -. Saliamo e mettiamoci vicine così quando ho sistemato i bagagli fa subito la sua chiamata”.

E così è: saliamo e una volta sedute lei mi pare un po’ meno in ansia. Tiro fuori il cellulare e glielo porgo, mostrandole dove è la tastiera. Si irrigidisce, si rabbuia di nuovo, e mi dice che non sa usare il telefono, per favore posso fare io il numero? Mi passa un foglio, digito; quando la linea dà il segnale le passo l’apparecchio, e quando dall’altra parte c’è la risposta lei si illumina di sollievo.

“Ave Maria, ave Maria, ave Maria, ave Maria. Madre misericordiosa sono io, madre arrivo prima stasera al convento.”

Cerco di fare l’indifferente ma è difficile far finta di non sentire, mentre lei durante la conversazione ogni tre parole intercala con ‘ave Maria’ il suo dire. Il dialogo è veloce, la giovane donna è davvero felice, il sollievo che emana è quasi palpabile, e quando saluta la superiora ecco un’altra quantità infinita di ‘ave Maria’.

Mi restituisce il telefono come se questa mio gesto le avesse salvato la vita. Difficile vedere nella vita di tutti i giorni una persona così grata, appagata e tranquilla solo per aver potuto fare una telefonata. Forse intercetta la mia curiosità, forse ora che è serena ha voglia di scambiare qualche parola, così parte il racconto.
“Sono suora di clausura, ho avuto una speciale dispensa per accompagnare in Inghilterra una sorella anziana, e ora, finalmente, sto tornando al convento, mi spiega.”

Clausura.

Una parola forte, che evoca scenari del tutto diversi da quelli offerti dalla nostra situazione.

Le domando quanti anni abbia, e da quanto sia suora. Sorride.

“Ho trentatrè anni, e sono in clausura da quando ne ho venti”. Ripensamenti? “Mai, non stavo bene nel mondo. Avevo amici, ho avuto anche un fidanzato, ma non era il mio posto. A diciotto anni ho capito che volevo essere solo di Dio.”.

Dice proprio così: non stavo bene nel mondo. Dunque è questo: io sono nel mondo, lei no.

Mi vengono alla mente le espressioni ‘vita mondana’, rinunciare alle cose del mondo’, ‘donna di mondo’ e penso a sua madre. Così le chiedo come l’ha presa, sua mamma, una scelta così definitiva: non solo il diventare suora, ma optare per la clausura, con la prospettiva di non vedere più la famiglia.

“E’ stata contenta, ha pianto, ma so che ha capito”. Ma vi vedete? Insisto, in preda all’angoscia proiettiva, se penso che uno dei miei figli potrebbe sparire in qualche luogo dove non lo si può più vedere se non dietro ad una grata, senza poterlo più toccare, abbracciare, sentire il suo calore, il suo odore.

“Per ora sì, il convento non è lontano da dove sono nata. Poi si vedrà, potrebbe anche venire l’ordine di trasferimento, si va dove è necessario. Siamo spose di Dio, quello che conta è lui”.

Ho conosciuto delle suore comboniane, le dico. Una, in particolare, non vestiva l’abito né si velava, ed era molto attiva anche nei movimenti delle donne e quelli della teologia della liberazione, le conosce? chiedo. Aggrotta la fronte. No, mai sentito nulla di tutto questo.

Mi spiega che la loro vita è, per scelta, ritirata, i contatti con l’esterno sono minimi: in convento c’è la regola del silenzio, la giornata è scandita dal risveglio, alle 4 del mattino, poi preghiera e meditazione, colazione all’alba, rassetto e lavori di casa e nell’orto. Tra loro c’è anche chi si prende cura dei libri antichi: li mandano al convento da tutto il mondo, perché alcune tra loro hanno imparato a riparare i messali usurati e i testi sacri che rischiano di andare persi per sempre. “Senta, posso chiedere perché portate il velo e vestite in modo così mortificante? Perché, per le donne, scegliere di consacrarsi a dio o essere fedeli di una religione significa nascondere la bellezza dei capelli e delle forme del corpo? Perché gli uomini non devono subire questo trattamento?

Mi guarda senza capire perché dica queste cose, perché sia un problema. “Io sono solo di Dio, non voglio attirare l’attenzione su di me da parte di nessun altro, risponde”. Sì capisco, insisto, ottusamente, ma perché agli uomini non è richiesto di cancellare il loro corpo, i capelli, che sono parte della bellezza di ogni essere umano?
Mi ripete la frase precedente, e comprendo che davvero non riuscirò ad arrivare a comunicarle quanto per me il velo e la ‘modestia’ che ne consegue siano segnali di segregazione sessista. Mi vengono in mente le immagini del film {Uomini di Dio}, e anche le interviste di un documentario sulla clausura femminile realizzate in un monastero ligure. E’ davvero un mondo a parte, nel quale però pesano diversi obblighi, e diverse possibilità, che sanciscono, lì come nel nostro mondo, la disparità di potere tra uomini e donne.

Così mi lancio: se è vero che per lei ciò che conta è Dio e la sua celebrazione, perché le donne non possono dire messa? Non sarebbe un altro modo per festeggiare la propria fede?

Inorridisce, prima che con le parole con l’espressione del volto: è come se avessi bestemmiato.
“Se Dio avesse voluto che le donne dicessero messa lo avrebbe sancito, scandisce, ora sulla difensiva”.

Ma, azzardo, lei parla del dio Javè degli ebrei, quello della vendetta. Gesù non si è incarnato per avvicinarsi di più all’umanità, non è lui che ha detto chi è senza peccato… e non è lui che ha ammonito chi giudicava Maddalena, non è lui che è nato da donna?

Certo, si infervora: ma il corpo evocato durante il mistero della transustanziazione è quello di un uomo e, solo un uomo deve sovraintendere al miracolo che ogni volta nella messa si rinnova”.

Che fare? Giusto per avere conferma le chiedo se è contenta del nuovo Papa. Prova a essere diplomatica, ma il linguaggio del corpo non perdona. “E’ moderno, sì. In linea con i tempi, ma io preferivo Papa Benedetto”. Come mai? Più rigoroso, più dogmatico, la fede è una cosa seria”. Certo, ribatto. Tanto seria che ci si ammazza in nome di dio, qualunque esso sia, mi scappa detto.

“No, no, questo è sbagliato, però non si può prendere solo quello che serve della religione, – dice ormai lontana”.
La guardo, mentre sta arrivando la mia stazione. E’ la perfetta testimone dell’intransigenza di qualunque ideologia: giovane, convinta, determinata, soprattutto femmina. Quindi con meno potere rispetto ad un suo pari di genere maschile, ma seguace pronta a difendere anche i lati peggiori nel nome dell’ortodossia. Una guerriera.

La storia dell’appoggio e del sostegno femminile a tutte le dittature che si sono susseguite nei secoli, laiche e religiose, hanno il suo volto aperto e convinto.

Mi alzo, prendo le valige.

Sono Monica, le dico porgendole la mano. Sono suor Maria. Dice. Buon ritorno, Maria, sottolineo omettendo quel ‘suora’. So che non la rivedrò più, ma so anche che molte giovani appassionate e sorde al dubbio e al pensiero critico, nel mondo, ne incontrerà ancora molte. Ave, Maria.