Avere il coraggio di tirar fuori il proprio immaginario di violenza esponendosi al ludibrio dei, delle, benpensanti, è un gesto rivoluzionario. Ci troviamo ogni giorno di più di fronte alla reiterazione gratuita di questo reato dispari (perché solo gli uomini lo commettono), che fonda tutte le altre violenze ( anche quelle apparentemente più distanti dallo stupro fisico di una donna, per esempio il dibattito politico, l’omofobia, il razzismo eccetera), un preteso “destino naturale” degli uomini alla violenza che ha stratificato in ciascuna donna un immaginario barbaro speculare a questa violenza.Da questo immaginario, che è un dato profondo che non si può rimuovere, possono emergere la frustrazione enorme, e quindi il silenzio impotente, o la possibilità di tirarlo fuori, di parlarne e di farne oggetto di una discussione civile che deve chiamare in causa anche gli uomini. E da qui nasce qualche nuova speranza.

Così è stato per i lucidi, furibondi, civilissimi, pensieri di [Eleonora->4685].
_ Giusto stamattina parlavo al telefono con un mio amico, che in un attimo di estrema disperazione e di improvvisa consapevolezza mi ha detto: ” Se metto in fila tutto quello di barbaro che sta succedendo nel mondo (guerre, distruzione del pianeta, speculazioni finanziarie, violenze efferate) è evidente che sono solo uomini quelli che decidono, programmano, agiscono, questa barbarie.
_ Hai ragione tu, c’è una questione di genere che nessuno nomina”.
_ Ho impiegato venticinque anni perché questa consapevolezza emergesse in lui, ma ovviamente non mi basta. Lui stesso, alla mia richiesta “perché non scrivi una lettera a “La Sicilia”, ha taciuto imbarazzato.

Quando nel 1982 due donne catanesi – Sebastiana e Carmela si chiamavano – giustiziarono il marito di una di loro che aveva violentato la figlia dell’altra, e ne scaraventarono il corpo nell’atrio della questura andandosi subito a costituire, noi del Coordinamento per l’Autoderminazione inserimmo sul volantino di quell’otto marzo un occhiello che diceva: “Solidarietà per Sebastiana e Carmela. Non siete sole. Le donne di Catania hanno capito”.

Cosa avevamo capito, pur tra mille contraddizioni? Che quelle donne avevano risposto con un gesto barbaro a un gesto “pre-istorico”, storicamente “barbaro”, cioè pre-civile, fuori dalla polis, da quel patto che, a partire dalla Grecia classica, fonda le società moderne: da queste, ieri come oggi, noi, in carne e ossa siamo escluse; sovranità sul proprio corpo e inviolabilità sono ancora “diritti fluttuanti”, e noi donne quindi ancora oggetti, non soggetti di cittadinanza, natura da dominare, da normare strettamente, visto che siamo, letteralmente, a-normali.

Fu proprio questa esperienza a indurmi ad alcune riflessioni su immaginario e immaginazione, violenza e giustizia, giustizialismo e garantismo, nell’esperienza storica femminile, proprio a partire dallo stupro.

Ne scrissi su “{{ {Lapis} }}” – ricordo, ancora fresca di un corso di formazione sulla cittadinanza per quadri della CGIL, che Annarita Buttafuoco aveva organizzato alla Certosa di Pontignano nell’estate del 1994. In quella circostanza proposi alle corsiste il laboratorio “Se fossi una legislatrice”, invitandole a indicare le pene per un loro eventuale stupratore; le sollecitai ad azzerare artificialmente le loro coscienze garantiste, democratiche, per consentire l’emergere di pensieri, immagini, sensazioni “deculturizzate”, per dirla con Carla Lonzi.

Ne venne fuori un immaginario di una violenza arroventata, sadica, inimmaginabile, quasi che quelle donne, nel girare la “corda barbara” si fossero d’un colpo liberate di una corazza scomodissima, la corazza garantista.
_ Pene atroci quindi: squartamento, marchio, evirazione, morte, azzeramento dei diritti, bando, umiliazioni continue meglio della morte, e altro indicibile; naturalmente, pene inflitte da un tribunale di sole donne.

Subito dopo, le invitai a girare la “corda civile”, e a interrogare la loro immaginazione di giustizia. Seppure con prudente scetticismo, cominciarono a parlare di educazione, di scuola, di mezzi di informazione, di laicità e tolleranza.
_ Conclusi allora, e ne sono tuttora convinta, che la partita tra giustizialismo e garantismo è una partita sempre aperta nella vita – pensieri, sentimenti, gesti – di ogni donna, perché è proprio essa il cuore del nesso differenza-eguaglianza, ancora tutto da governare  nella nostra costituzione civile, simbolica, culturale.
_ Come rendere giustizia alla nostra differenza? Come garantire la nostra eguaglianza? 

Quando Eleonora dice del calvario delle donne nigeriane, come non sentire vibrare furiosamente la corda barbara? Come non sentire che solo il pensiero di una violenza altrettanto barbara può immaginare di rendere minimamente giustizia a tanta barbarie?

Come non pensare il pensiero del mio amico mettendo in fila tutti i passaggi di potere che si attivano prima e dopo, attorno e oltre, la storia di quelle donne, e sadicamente, lucidamente, individualmente, guardare in faccia il nostro immaginario e pensare di farne strumento di una giustizia che deve ancora esserci resa? Non a caso la furia civile di Eleonora parte dai corpi di quelle donne-corpinostri e da lì risale ai responsabili qui e là di un sistema di potere maschile ancora compatto, che ancora ritiene “naturale”, che quello scempio avvenga, che non distingue i corpi delle migranti da quelli dei migranti, il “di più” e  il differente viaggio che essi raccontano.

{{Ho sempre creduto nel potere salvifico delle parole}} (soprattutto nelle parole della poesia e della politica, entrambi luoghi della possibilità, dell’invenzione, del cambiamento), ma temo anche la loro evanescenza.

Per questo, se continuo a nutrirmi soprattutto delle parole vitali delle donne, penso che sia sempre più urgente dare voce ai pochi “uomini di buona volontà” affinché parlino da uomini agli altri uomini, rompendo la solidarietà di genere.

Per questo sono convinta che i luoghi misti, pur in buona fede, sappiano intervenire su tutto ma non su questo discorso radicale, imprevisto : gli uomini, la loro sessualità, il loro potere in tutte le sue manifestazioni e forme.

{{Penso quindi che il separatismo maschile debba avere oggi, subito, un luogo e un tempo per poter entrare nella questione delle questioni}}: la “questione maschile”, in fondo un’avventura esaltante, che gli uomini “veri” dovrebbero intraprendere con passione. Il separatismo a noi è servito (e ci serve ancora) per smontare il nostro “destino naturale”.

{Emma Baeri}

Emma Baeri, storica catanese, è autrice de I lumi e il cerchio. Una esercitazione di storia (Rubettino, 2008) e di numerosi altri saggi sulla storia e le pratiche del femminismo.

{Da Articolo 3 Newsletter n. 54 riportiamo due lettere con cui è proseguita la riflessione sulla violenza, a partire dagli interventi di Eleonora Cirant e di Emma Baeri.}

{{GESTO RIVOLUZIONARIO O GESTO ARCAICO?}}

Bella, proprio bella, la lettera di Emma Baeri, che risponde a quella sincera e quasi disperata di Eleonora Cirant, e che suscita, anche in una “benpensante” come me, la voglia di intervenire: senza alcuna intenzione di “ludibrio”, perché vivo le stesse reazioni. E chi non le vivrebbe?
Coltiviamo tutte ogni giorno, io credo, nella nostra piccola quotidianità, un immaginario di violenza, ma è immaginario utile ad impedire che, negli accadimenti barbari che non solo ci indignano, ma ci sconvolgono, imploda e ci “morda” la rabbia altrimenti “muta”; un immaginario necessario a mitigare la frustrazione, il senso di impotenza che troppo spesso patiamo; e quindi valvola di sfogo, a me pare, segnale di opposizione radicale che non possiamo – e non vorremmo – esprimere con restituzione cruenta. Perché sappiamo benissimo, e non a caso Eleonora se lo domanda, cosa succederebbe: una regressione alla vendetta (so che è banale esplicitarlo), quella regressione che continua a serpeggiare – e non nascostamente – nel nostro tempo buio, che si mantiene come struttura profonda e insidiosa della società. In ciascuna/o di noi.
Rivoluzionaria? No, questa “forma di resistenza” che inusuale a me non pare in noi e che per passione monta non solo in rabbia ma in furore, in “furia civile”, può essere invece davvero segnale di speranza – del resto Emma l’ha poi ben precisato –, a patto che si trasformi in pensiero: quello che si traduce nelle azioni concrete che Eleonora chiama residuali (ma non lo sono davvero?), perché conosce la limitatezza circoscritta della loro incidenza.
Ha ragione Emma, la partita tra giustizialismo e garantismo, tra la “corda barbara” quella “civile” è sempre aperta perché è “il cuore del nesso uguaglianza – differenza”, ed è partita che ci coinvolge (dilacera?) da quando Medea è entrata nel nostro immaginario di studenti prima e di donne poi, con l’impatto di un’emozione fortissima, con la violenza di un istinto liberato.
E tuttavia, per quanto ci costi, abbiamo imparato o cerchiamo di imparare – pur con qualche “scetticismo” – a “girare la corda civile”, ad elaborare in riflessione la corda materna, inclusiva, ad evitare il costume violento che la violenza delle parole ‘immediate’ non può non indurre. Questo io non credo sia il perbenismo dei/delle benpensanti: è il faticoso percorso dai gesti arcaici ai gesti femminili (e non) davvero rivoluzionari: che sono quelli piccoli e possibili, e perciò non residuali, del quotidiano.
Vorrei lasciare l’intrigante “furia selvaggia” delle eroine alle seduzioni della letteratura, benché nello stesso momento io contraddittoriamente senta quanto covi nel mio intimo l’eccedenza della “fantasia” di Eleonora.

{Annarosa Baratta}

{{COSA SUCCEDEREBBE…}}

Cosa succederebbe, si chiede Eleonora Cirant, a conclusione dell’ articolo sul n° 53 di Articolo3, se, con il montare dell’inquietudine di fronte alle reiterate forme di violenza alle donne, venisse voglia di difendersi rispondendo violenza a violenza?
La domanda è destinata a rimanere senza risposta perché, al di là della rabbia e del coraggio di tirare fuori il proprio immaginario di violenza, sia pure come gesto rivoluzionario, come dice Emma Baeri nella lettera che segue, quel reato resta un “reato dispari” che solo gli uomini commettono.
Per fortuna, mi viene voglia di dire. Almeno nella rete di quel tipo di violenza non cadiamo; ma mi spaventa il fatto che, nella situazione di sconcertante aumento del dolore delle donne, si rischi di far esplodere la rabbia e pareggiare i conti sulla stessa tavola. Anche Eleonora si spaventa delle fantasie che le capitano perché quasi non si riconosce, avendo in orrore armi, guerre e gesti efferati.
La questione per me è proprio lì, nello sforzo di usare ogni volta un metodo che non sia quello maschile, un gesto che dica chiaramente che appartengo ad un genere, quello femminile, che sa trovare strade e soluzioni capaci di rompere la consuetudine, di irrompere in essa. Non conosco il movimento indiano di Sampat Mal Devi e mi piacerebbe vedere direttamente, parlare, conoscere ragioni, come è stato per il gruppo Sewa del Gujarat. Mi vengono in mente le donne del Rawa, la loro capacità di fare scuola e cura in un regime in cui la violenza era legge e continua a sembrarmi duratura e sensata la loro opera.
Mi procura invece qualche timore, da benpensante forse, l’idea che l’urlo di rabbia, l’ “uccidiamoli tutti” (sia pure nella fantasia) possa diventare la forma manifesta dell’indignazione femminile. Temo che fermerebbe il femminismo ad anni lontani, lasciando al presente un’eco rifratta nelle giovani donne, e che soprattutto non aprirebbe spazio a quel fine tessuto di pensiero, pratiche, invenzioni, creatività di cui siamo insieme, giovani e vecchie, capaci.
Spesso, nel corso dell’ultimo decennio, ci siamo chieste quale eredità stiamo lasciando a figlie di venti, trenta e quarant’anni. Qualche volta abbiamo perfino temuto non solo di non aver lasciato nulla, ma di avere addirittura prodotto l’effetto – rifiuto.
Ci stiamo accorgendo che non è così: molto di quanto è stato pensato e voluto è parte viva della loro storia e dei loro comportamenti. Eleonora è una delle giovani donne che lo mostrano.
C’è una maniera di addentrarsi nella prassi di relazione e di incontro che si è fatta nel tempo carica di sapienza e che non può disperdersi perché si alimenta della conoscenza, sempre più profonda e più interna, alle disparate situazioni drammatiche che, nella migrazione, nella marginalità, nella complessità delle storie del nostro tempo, riesce a costruire vicinanza, comprensione e mutualità d’aiuto.

{Nella Roveri}